Salmo 50
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l' ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l' ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo m'insegni la sapienza.
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo m'insegni la sapienza.
Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato;
sostieni in me un animo generoso.
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato;
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.
Nel tuo amore fa' grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto e l'intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.
l'olocausto e l'intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.
1 Il punto di
partenza
Dal
Vangelo secondo Luca: 15, 1-10
Si
avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei
e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ».
Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne
perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta
finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a
casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho
trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno
bisogno di conversione.
O
quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza
la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata,
chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato
la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di
Dio per un solo peccatore che si converte ».
Desidero ringraziare tutti voi perché avete,
ancora una volta, accettato l'invito a questo appuntamento per pregare,
ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio.
Il tema su cui ci proponiamo di riflettere
quest'anno, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo « Miserere », si può intitolare:
cammino di riconciliazione.
La scelta del tema
Alla scelta del tema mi hanno guidato diversi
motivi.
Siamo nell’Anno Santo promulgato da Giovanni
Paolo II nel marzo scorso e che si concluderà nella Pasqua del 1984. L'Anno
Santo è propriamente un appello a compiere l'itinerario della riconciliazione.
Si è concluso, pochi giorni fa, il Sinodo
mondiale dei Vescovi su: «Riconciliazione e penitenza nella missione della
Chiesa». Ho potuto vivere da vicino i lavori del Sinodo e mi hanno colpito
soprattutto tre sottolineature che vi sono emerse:
1. C'è un nesso inscindibile tra la
riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore. Questa
persuasione è venuta crescendo in noi e l'abbiamo approfondita con particolare
attenzione. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione
sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del
cuore. Come pure non c'è conversione del cuore - e quindi anche cammino di
penitenza cristiana - senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella
riconciliazione sociale e politica.
2. Esiste un itinerario penitenziale. La
conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle
tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C'è un itinerario
che è fatto secondo il cuore dell'uomo e che noi siamo invitati ad imparare,
per ripercorrerlo.
3. C'è una missione ecclesiale verso il
mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più
chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino
chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i
problemi della riconciliazione umana e cosmica.
Per tutti questi motivi mi è sembrato
importante riflettere quest'anno, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.
Il Miserere
Il Salmo 50 (o 51 secondo l'enumerazione
ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
Esso attraversa tutta la storia della Chiesa
e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di
Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto
segnale di ardente difesa dell'immagine di Dio nelle infuocate prediche del
Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d'Arco; è stato studiato
intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo
specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di
lettura dei suoi romanzi.
Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di
Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l'hanno
ripensato in musica. Celebri pittori l'hanno descritto con meravigliose
incisioni.
È soprattutto il salmo che ha accompagnato le
preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi
hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro
vita.
Il Miserere è la preghiera dell'uomo di
sempre, appartiene alla storia dell'umanità, non solo alla storia dell'Oriente
ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel
cuore dell'uomo e nel cuore della storia dell'umanità.
Possiamo ripetere, facendola nostra, la
preghiera di Charles de Foucauld:
Grazie, mio Dio, per averci dato questa
divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera
quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra
preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione,
amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla
considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla
contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la
conversione di tutti gli uomini.
L'iniziativa
divina
I primi versetti del Salmo 50 ci introducono
con queste parole: .
Pietà
di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel
tuo grande amore cancella. il mio peccato.
Lavami
da tutte le mie colpe,
mondami
dal mio peccato.
Il punto di partenza del cammino di
conversione del cuore è l'iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il
primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della
sua bontà.
I vocaboli che la versione italiana usa per
indicare ciò che l'uomo ha fatto - il peccato, le colpe - non rendono
adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole
diverse che andrebbero lette così: «...cancella la mia ribellione, lavami da
ogni mia disarmonia, mondami, "tirami fuori" da ogni mio smarrimento
». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell'uomo, una distorsione, una
disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante
il progetto di Dio.
Alle parole che indicano lo sbandamento
dell'uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà... misericordia...
amore ». C'è il peccato dell'uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci
sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l'insistenza non è
sull'uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull'infinità di
Dio.
Cerchiamo di riflettere brevemente sui
vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.
Chi è Dio
La prima parola è racchiusa in un verbo ma,
in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo
con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi
grazia, riempimi della tua grazia».
Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia,
che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia
una mano. È l'esperienza di Maria che canta: « Signore, tu hai guardato alla
povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua
grazia».
Dio è dono gratuito, è l'essenza della
gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a
noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un'idea falsa di Dio. Abbiamo di
Lui, per dirlo con una parola tecnica, un'idea farisaica, che cerca cioè di
capire Dio partendo dalle categorie del calcolo.
Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha
bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in
basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.
La seconda parola è « misericordia ».
È interessante notare che l'espressione è: « secondo la tua misericordia » e
non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista
sottolinea la proporzione infinita, che l'uomo intuisce senza comprenderla,
della misericordia divina. .
In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga
storia ricca di significato. Indica, infatti, l'atteggiamento tipico di Dio
verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà,
tenerezza, costanza nell'attenzione e nell’amore.
Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza»,
nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai.
Dio è colui che io non conosco, ma per il
quale sono importante, per il quale è importante - secondo la parola di Gesù -
ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un'attenzione della
tenerezza di Dio.
Noi traduciamo hésed con « misericordia»
perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili,
peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene
a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.
La terza parola è « nel tuo grande amore
». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un
vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro,
di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da
soffrirne o goderne come di cosa propria.
Questo attributo di Dio è qualcosa che può
capire chi ha amato un'altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente,
appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per
l'uomo, abbi misericordia, o Dio ».
Questi tre attributi di Dio ci danno il tono
del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com'è. Partendo dalla
contemplazione dell'iniziativa divina per l'uomo, ci invita prima di tutto ad
avere una grande e giusta idea di Dio.
Domande per noi
Nascono per noi
alcune domande.
Ho una giusta
idea di Dio? Lo incontro così com'è? È importante questa prima domanda
perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé,
né degli altri.
Nel cap. 15 del
Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di
Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo
il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera
Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi,
finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte
ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non
abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella
profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua
creaturalità. Nell'ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un
Dio un po' cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da
me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo
difficile Lui stesso e non si lascia raggiungere.
Al fondo di
tutti questi sentimenti c'è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama
così come sono, che non è contento di me.
La grande
rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta
fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e
tenero.
Tutto questo
l'ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge:
«Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a
casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho
trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L 'ha compreso la donna che,
ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me»
(15, 9).
Gesù conclude la
parabola: « Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo
peccatore che si converte» (15, 10).
Ciascuno di noi
dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento
qualcosa di molto importante per lui.
Ecco che cosa
significa avere un'idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino
della riconciliazione.
Seconda domanda:
ho qualche idea sbagliata su Dio?
Abbiamo già
detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un'idea
sbagliata di Dio.
Emerge in noi,
con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno
e di cui ci vergogniamo?
Ci ribelliamo
contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?
Terza domanda: che
cosa posso fare per correggere l'idea sbagliata che ho di Dio? Per
correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?
Uno dei modi è
certamente l'ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che
riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell'espressione spirituale
della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi
grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l'uomo. Nella tua tenerezza
cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle
coltivate: Tu solo puoi darmi l'idea giusta perché come posso conoscerTi se non
Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».
Infine,
l'ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per
correggerla?
L'idea sbagliata
che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo
avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è
criticabile (lo siamo un po' tutti!), ma quando ci lamentiamo all'infinito di
qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol
dire che non abbiamo assunto l'atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di
noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero,
positivo, la situazione.
Spesso si creano
tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è
sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altri. Se
avessimo un'idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farei
guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli
positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi.
Perché non
imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all'infinito
perché l'altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa,
proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il
cuore, l'animo, la vita, il sorriso di questa persona?
2 Il
riconoscimento della situazione
Dal Vangelo
secondo Luca,: 15,11-32
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il
più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta.
E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo
non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un
paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe
speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a
trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di
quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora
rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane
in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli
dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di
esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si
incamminò verso sud padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e
commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli
disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di
esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il
vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai
piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al
ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e
gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo
fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto
sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a
pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho
mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far
festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi
averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli
rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Riconosco
la mia colpa,
il
mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro
di te, contro te solo ho peccato,
quello
che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto.
Ecco,
nella colpa sono stato generato,
nel
peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu
vuoi la sincerità del cuore
e
,nell'intimo m'insegni la sapienza.
Le parole dei
primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella
sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.
La prima
parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti
all'indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa,
contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.
La seconda
parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi
sono all'imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo
sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia,
sostieni in me.
La terza
parte è il progetto per l'avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la
mia lingua esalterà.
Con termini a
noi più abituali possiamo chiamare: esame di coscienza il riconoscimento della
situazione; richiesta di perdono la supplica; proposito il progetto per
l'avvenire. Sono tre momenti chiaramente distinti nella lettura, anche
semplicemente nella differenza dei verbi.
Verso la verità di noi stessi
Tre sono i
soggetti che vengono presentati in azione.
Il soggetto che
appare più di frequente è la stessa persona: l'io. Io riconosco la colpa, io ho
peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.
Un altro
soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in
cui l'uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi
ha concepito mia madre.
Il terzo
soggetto dell'azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il
significato del brano è il Tu.
C'è quindi l'io
che riconosce, c'è una determinazione generale della situazione di colpa, c'è
il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la
sincerità del cuore, Tu, nell'animo mi insegni la sapienza.
Cerchiamo di
riflettere innanzi tutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter
poi comprendere meglio quelle che precedono.
Nel testo
ebraico l'espressione « Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu
ami la verità nell'oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove
l'uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.
«Tu mi insegni
sapienza nel segreto.» La sapienza è una delle realtà più alte e più; profonde
dell'Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore
creativo, progetto divino di salvezza.
Ecco la chiave
della prima parte del Salmo: Dio, nella sua iniziativa di amore e di
misericordia, proietta nell'oscurità della mia psiche, nel profondo della
coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità
di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono
chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con
la sua grazia.
La verità e la
sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle
pieghe dell'anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi
istruisce e mi sospinge alla sincerità e all'autenticità di quello che io
veramente sono.
Il dialogo con il Tu
Se abbiamo
inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere
quelle che si trovano all'inizio: « Contro di te, contro te solo ho peccato ».
Ho fatto ciò che non va davanti a te.
A prima vista ci
appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che,
storicamente, è ritenuto l'emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a
Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha
peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha
preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore.
Eppure
l'insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è
instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di
Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era
riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che gliela
rinfaccia.
Tuttavia, quando
gli vengono apertamente detti gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di
fronte alla verità terribile della sua coscienza.
Peccando contro
l'amico con il tradimento, con l'infedeltà e con l'adulterio, Davide si è messo
contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua: «Contro di te, contro
te solo ho peccato». L'espressione è molto simile alla parola centrale della
parabola evangelica del figlio prodigo: « Padre, ho peccato contro il Cielo e
contro di te ». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la
sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da
lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo
rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Lc. 15, 11-32).
L'uomo, istruito
da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo
sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l'immagine di
Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.
Il richiamo è
importante per noi che siamo giustamente abituati oggi a sottolineare gli
aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca
la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che
Dio sta dietro ad ogni uomo, ad ogni persona che noi trattiamo male, che
inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che
respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi
un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema
etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti
familiari, personali, sociali sono il problema dell'uomo nel suo dialogo con
Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità.
Non viene,
infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato
». La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un
atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell'uomo che parla
così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso
deprimente e avvilente di colpa.
Tutti noi siamo
soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta
contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è
vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori.
Le parole del
Salmo ci rivelano la differenza tra l'esame di coscienza fatto in dialogo con
Dio e tutta l'analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno
riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito
rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo,
scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l'uomo che ha trovato la via
giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma
espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell'uomo. Notiamo anche il
carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi
occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.
Come 'è diversa
questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti » giudiziari! Il pentimento
giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui
induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il
«pentito»dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che
non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa
l'uomo totalmente diverso: Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!; il processo di
trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un'esistenza
nuova.
Domande per noi
Abbiamo visto
che l'esame di coscienza è il lasciare emergere quella verità di noi stessi che
Dio, nella sua bontà, ci insegna. Le parole del Salmo possono rinnovare dentro
di noi il senso religioso, forse stanco di atti ripetuti e non capiti fino in
fondo.
Vi propongo
allora due domande semplicissime e utili per prepararsi al Sacramento della
Riconciliazione:
·
Che cosa non vorrei avere sulla coscienza?
Che cosa mi pesa, mi avvilisce, mi opprime, mi fa essere quello che non vorrei?
Lasciamo che emerga ciò che ci viene come risposta a questa domanda con
semplicità, senza ricorso immediato a formule imparate. È infatti la verità di
noi stessi che sta nascendo come supplica, come desiderio, come immagine giusta
o sbagliata di noi.
- Come avrei
voluto essere e non sono stato? Come avrei voluto comportarmi nelle
situazioni che ora mi pesano?
Da qui comincia
il dialogo, che chiarisce le motivazioni e i giudizi, ricostruendoci
dall'interno, in quell'opera di creazione, esaltata nella seconda parte del
Salmo, su cui mediteremo in uno dei prossimi incontri.
Dopo queste
domande, suggerisco quattro riflessioni:
- Quando ho
fatto l'ultima volta l'esame di coscienza?
- L'esame di
coscienza mi dà noia, mi disturba oppure mi lascia contento? Per capire meglio
il significato di questo interrogativo vi può aiutare la lettura del seguente
testo che traggo dall'autobiografia di S. Ignazio di Loyola:
Pensando alle
cose del mondo provava [il Santo scrive in terza persona, pur parlando di se
stesso] molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava, si sentiva
vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di
erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi,
erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche
dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non
vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché
una volta gli si aprirono gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò
a riflettervi; dall'esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano
triste, altri allegro, e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli
spiriti che si agitavano in lui: uno del demònio, l'altro di Dio.
È quindi
importante chiedersi se l'esercizio dell'esame di coscienza ci pesa oppure se
ci lascia contenti.
- Considero
l'esame di coscienza un'iniziativa divina di dialogo, cioè un colloquio con un
Tu? Oppure lo ritengo una fastidiosa e faticosa analisi della psiche? Mi abituo
a considerarlo un dialogo in cui parlo, ascolto, mi esprimo con fiducia, con la
gioia di essere accettato, accolto e riabilitato a partire da ciò che sono?
- Se trovo
difficoltà nell'esame di coscienza, che esprime un modo di essere
irrinunciabile dell'uomo che vuole prendere coscienza di sé, mi lascio aiutare
dalla Chiesa nel dialogo penitenziale?
Il Sinodo dei
Vescovi ha parlato a lungo del cammino di conversione necessario ad ogni uomo,
ad ogni comunità. Ha parlato anche dei momenti di questo cammino, di cui fa
parte la capacità di riconoscere autenticamente ciò che c'è in noi e di viverlo
limpidamente davanti a colui che, in nome di Dio, ci ascolta in un dialogo
paterno.
Il Signore è
pronto a trasformare la nostra, vita se la mettiamo nelle sue mani e auguro a
ciascuno di vivere questa esperienza, che è una delle più belle che l'uomo
possa fare.
3 Il dolore dei peccati
Dal Vangelo
secondo Luca: 22, 54-62
Dopo averlo preso, lo condussero via e lo
fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano.
Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno,
anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una
serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui ». Ma egli negò dicendo:
«Donna, non lo conosco! ». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di
loro! ». Ma Pietro rispose: «No, non lo sono! ». Passata circa un'ora, un altro
insisteva: «In verità, anche questo era con lui, è anche lui un Galileo ». Ma
Pietro disse: « O uomo, non so quello che dici ». E, in quell'istante, mentre
ancora parlava, un gallo cantò. All'ora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e
Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il
gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E uscito pianse amaramente.
Sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Per completare
la riflessione sulla prima parte della sezione centrale del Salmo 50, meditiamo
sulle parole: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio ». Esse ci
permettono di entrare nel tema del dolore dei peccati.
La parola «
dolore », pronunciata nel contesto del Sacramento della Riconciliazione, può
evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione.
È il ricordo di
sentimenti talora spremuti a fatica; l'incertezza che ci può prendere se
abbiamo avuto o non abbiamo avuto veramente il dolore in qualche nostra
confessione; il senso di colpa per non riuscire, almeno ci sembra, a provare un
dolore vivo dei peccati commessi e il ritardare forse, per questo, la
confessione.
Eppure, nel
campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più
evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolòre nel corpo,
malgrado non lo voglia.
Gli stessi
dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono
fino a toglierei il sonno.
Che cos'è dunque
il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto
viva e presente, del dolore fisico o morale?
Il giudizio su di sé
Vorrei
cominciare da qualche riflessione generale.
Ci sono degli
atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei
comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno
vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire.
Talvolta ci
accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di
precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche
aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.
Questa capacità
di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa.
Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l'ho
fatto e non l'approvo.
Il cammino della
purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica
una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.
Saper fare
questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale.
C'è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta
di sé in tutto. Se, nelle nostre confessioni, siamo portati ad accusare gli
altri ed a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo
verso il pentimento cristiano.
E d'altra parte
è vero che, forse per una certa abitudine al Sacramento della Riconciliazione,
il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino
in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci
sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra.
Più di frequente
il pentimento è bloccato perché non siamo affatto convinti che quello che
abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è
sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero. In questo caso il dolore,
il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
Che cosa
dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è
bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?
È chiaro che il
cammino da fare è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi ad una
valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la
preghiera.
Invece di
cominciare subito con la confessione propriamente detta, può essere opportuno
cominciare ad instaurare un semplice colloquio amichevole che permette di
esprimere la difficoltà di fondo, di dare voce a questa difficoltà e di farci
aiutare a chiarirla. Sarebbe errato fermarsi alla difficoltà lasciandosi ipnotizzare
da essa.
Con queste tre
riflessioni, siamo ancora ai preliminari di quello che è il dolore cristiano
dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e
vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.
La parte lesa
Che cosa vuol
dire concretamente: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio? ». Noi
interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un
giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
Le due parti
sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di
Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come
giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la
condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.
Questa
interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il
peccatore alla morte, senza possibilità di appello.
La realtà
vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli,
che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da
Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e
questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è
quindi anche un giudizio di perdono.
Dio, come parte
offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha
tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.
È propriamente a
questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell'uomo: l'uomo si
trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo
gli offre la mano destra della sua fiducia.
Se noi chiediamo
in che maniera l'offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci
risponderà dal libro dell'Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone
opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce patte lesa e inizia
la sua azione contro l'oppressore con queste parole: « Ho osservato la miseria
del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti;
conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Es. 3, 7-8 ).
Ci risponderà
ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si
costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è
visitato: «In verità vi dico... non l'avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).
Il pianto di Pietro
C'è un brano del
Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l'esperienza del
dolore del peccato che abbiamo meditato nelle parole di Davide. È l'episodio di
Pietro che per tre volte ha negata di conoscere Gesù: « In quell'istante,
mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò
Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto:
"Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito
pianse amaramente» (Lc. 22,-54-62).
Perché Pietro
scoppia in pianto?
Fino a quel
momento aveva una certa coscienza, anche se un po' annebbiata, di avere fatto
una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico.
Ma è solo quando
Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento
capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest'uomo e lui va a morire per me!
È la
sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l'ha demeritata,
che fa scattare il contrasto.
Il dolore
cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall'incontro con
Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l'uomo, offre, come contraccambio,
uno sguardo di amicizia.
Pensiamo che
qualcosa di simile sia avvenuto nella coscienza dell'attentatore di Giovanni
Paolo II, all'ingresso indifeso del Papa nella sua cella, al suo curvarsi pieno
di simpatia, al suo prestare ascolto come ad un amico.
Sono esperienze
che non si possono descrivere e che ciascuno di noi può però intuire.
Domande per noi
La rivelazione
della colpevolezza del cristiano viene dall'incontro con Cristo, con la sua
Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio
su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero
pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona;
nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per
l'infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il
disprezzo di un rapporto prezioso. .
Possiamo
chiederci:
- Per che cosa
posso dire, in verità, dentro di me: « Contro di te, contro te solo ho peccato?
». Che cosa emerge nella mia coscienza quando rifletto su queste parole?
- Quali di
queste cose che emergono sono lesioni dell'immagine di Dio in altri, sono
rifiuto di attenzione, di ascolto, di aiuto, di stima? Ho colto, riesco a
cogliere il rapporto tra la lesione di un altro e la lesione della mia amicizia
e alleanza con Dio, che si è instaurata nel Battesimo e che vivo
nell'Eucaristia?
- Sono
consapevole della potenza riabilitativa del mio perdono? Anch'io, come Gesù, posso perdonare, posso
fare rivivere, posso ridare fiducia e onorabilità.
Riesco a farlo?
Invoco lo Spirito Santo per essere, intorno a me, partecipe del potere
riconciliatore di Cristo?
E possiamo dire
insieme:
« Concedi,
Signore, a noi che cerchiamo la via della penitenza, di entrare nel giusto
cammino e concedi che questo entrare sia non soltanto per noi ma per tutta la
città che spiritualmente è qui presente e cammina con noi.
Tu, Signore, che
hai donato il dolore del peccato a Davide e a Pietro, concedi la grazia di un
dolore profondo a noi e alla nostra città per tutto ciò che ti offende».
4 La
supplica
Dal Vangelo
secondo Giovanni: 8, 1-11
Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma
all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli,
sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna
sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna
è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato
di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ». Questo dicevano per metterlo
alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere
col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e
disse loro: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di
lei ». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne
andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo
Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove
sono? Nessuno ti ha condannata? ». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore ». E Gesù
le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più ».
Crea
in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova
in me uno spirito saldo.
Non
respingermi dalla tua presenza
e non
privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi
la gioia di essere salvato,
sostieni
in me un animo generoso.
Le parole
costitutive della seconda parte del Salmo sono una supplica, una invocazione,
una grande preghiera. Ne meditiamo solo alcune perché esprimono l'autentico
grido di chi conosce Dio e impara a conoscere se stesso e vogliamo chiedere al
Signore la grazia di poter condividere questo autentico grido.
Sono le parole
che troviamo alla fine della seconda parte: «Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non
privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in
me un animo generoso» .
L'epiclesi dello Spirito
Cominciamo da
una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di
fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell'uomo.
Il versetto tradotto con « sostieni in me un animo generoso », infatti, nel
testo ebraico si legge: «rafforzami col tuo Spirito generoso », oppure: « Poni
in me uno Spirito generoso ».
La supplica domanda
lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria
epiclesi.
L'epiclesi
liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento
della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul
pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo.
La liturgia,
oltre a questa invocazione eucaristica dello Spirito, ha, in alcune preghiere
del canone, un'altra epiclesi comunitaria in cui si chiede che lo Spirito
scenda sulla comunità e ne faccia una cosa sola in Cristo.
Qui siamo di
fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché
scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante
del Salmo, come la Consacrazione è il momento culminante dell'Eucaristia.
Una nuova creazione
Proviamo ora a
riflettere su due domande parallele di cui una: «Crea in me, o Dio, un cuore
puro» è all'inizio dell'epiclesi dello Spirito e l'altra: «Rendimi la gioia di
essere salvato» è nel contesto dell'epiclesi stessa.
Qual è la
domanda fondamentale? Crea in me.
Il verbo creare
è il primo della Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn.
1, 1). È parola che la Bibbia riserva per Dio solo: non è mai usata per
un'azione umana, è esclusiva dell'azione divina che dal nulla pone in essere,
dell'azione divina che fa qualcosa di nuovo.
La domanda è
quindi di un' azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell'uomo.
E la parola «
crea in me » è parallela con l'altra: « rendi mi la gioia ». Nell'ebraico si
legge: « Fa' ritornare, fa' risorgere in me la gioia ». Non si chiede qualcosa
di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo
originario che è il Battesimo.
Il Sacramento
della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa
dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra
colpa abbiamo perduta.
Per questo il
Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non
abbiamo vissuto profondamente l'esperienza dell'annuncio evangelico, la forza
del kerygma.
Come si può
restituire ciò che non c'è mai stato o che c'è stato in maniera fiacca, slavata
e generica?
Come è possibile
ritrovare la forza del Battesimo se non è mai stata percepita in un atto di impegno
personale e autentico?
Il cammino di
conversione penitenziale deve essere un cammino che ci permetta di ritrovare
quella forza sorgiva del Battesimo che forse alcuni non hanno mai esperimentato
perché non hanno espresso, in modo personale e coerente, la loro donazione a
Dio. Quella donazione che siamo chiamati ad esprimere nel Sacramento
dell'Eucaristia, nel Sacramento della Confermazione, nella professione di fede,
in un corso di Esercizi Spirituali che ci faccia comprendere la forza del
messaggio salvifico di Dio.
Senza questa
prima esperienza, la Confessione è privata del mordente che dovrebbe avere come
nuova azione di Dio che riconduce l'uomo nella pienezza dell'immersione nello
Spirito Santo, propria della grazia. del Battesimo e della Cresima.
La gioia cristiana
Qual è l'oggetto
dell'atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore
puro, è la gioia.
La Scrittura
indica la gioia come l'esperienza fondamentale del cristiano, esperienza che
corrisponde ad un cuore puro, pulito, ad un cuore che non si accusa perché è
stato immerso nell'accoglienza del Padre, perché ha visto Dio Padre buono che
lo ha accolto e rifatto completamente.
La gioia è
l'esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure tante volte,
ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza
che si trascina stancamente. Non perché la gioia non sia dentro di noi - in
noi, infatti, c'è la forza dello Spirito Santo e tutti l'abbiamo - ma perché
non la esprimiamo, non le apriamo la via e così resta nascosta, quasi
impercettibile.
Lo spazio alla
gioia è il momento della preghiera, dell'adorazione, del silenzio, del canto,
del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della
rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non
è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci.
« Crea in me, o
Dio, un cuore puro... rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della
salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.
È la gioia della
donna adultera di cui parla il Vangelo di Giovanni (8, 1-11). Questo brano non
si trova in molti manoscritti dei Vangeli, pur essendo antichissimo e pur
facendo parte della primitiva catechesi cristiana. Non vi si trova perché,
probabilmente, è stato ritenuto pericoloso, dal momento che non mette
abbastanza in luce lo sforzo penitenziale della donna adultera! Sembra un brano
che faciliti la colpa, il peccato, la deviazione morale. Tuttavia chi lo ha
letto in questo senso e lo ha poi tolto da molti manoscritti e codici delle
Scritture, non ha capito il perdono creativo di Dio, la forza rinnovatrice del
suo Spirito nel cuore dell'uomo, la capacità che Dio ha di fare un uomo
diverso, non semplicemente come risultato dello sforzo della buona volontà
umana ma per il potere creativo dello Spirito.
La gioia, che la
donna quasi non esprime a parole, è l'immagine di ciascuno di noi, salvato da
una parola di perdono di Cristo.
La certezza del perdono
Il proposito che
possiamo fare non è semplicemente una scommessa sul futuro, non è una
previsione di ciò che saremo perché nessuno è profeta su di sé, non è la
certezza di riuscire a dominarsi pienamente.
Il proposito è
la certezza della forza che emerge dal condono di Dio.
Se Dio mi ama, se
Dio mi perdona, io posso chiedergli: Signore, fammi essere diverso! Desidero, e
tu lo sai, essere altro da ciò che sono stato!
Il proposito è
in questa supplica che a poco a poco lascia spazio alla gioia e alla forza
dello Spirito dentro di me. È l'esperienza di S. Agostino:
Ma tu, o
Signore, guardasti all'abisso della mia morte e, nel profondo del mio cuore,
distruggesti l'abisso della corruzione... Come subito mi apparve soave l'essere
privo di quelle false dolcezze che prima avevo paura di perdere ed ora invece
mi era gioia il lasciarle!
Eri tu che le
allontanavi da me, tu, o dolcezza vera e somma; le allontanavi e penetravi tu
al loro posto, tu più dolce di ogni voluttà ma non per la carne ed il sangue;
tu più luminoso di ogni luce ma intimo più di ogni segreto; tu sublime più di
ogni grandezza, non per quelli però che sono alti di se stessi.
Ormai il mio
spirito era libero dalle dolorose preoccupazioni dell'ambizione e del guadagno
e della lebbra di passioni inquiete e libidinose. Balbettavo le prime parole a
te, mia lucé, ricchezza e salvezza, o Signore Dio mio (Dalle Confessioni, IX,
1).
Domande per noi
Propongo tre
domande per la riflessione:
- Ho fiducia che
Dio possa creare in me un cuore nuovo? Oppure vivo rassegnato alla mia
debolezza, dicendomi che non c'è niente da fare perché sono fatto così?
Ho fiducia nella
forza battesimale dello Spirito che è in me e che il Sacramento della
Riconciliazione ricrea, con atto creativo, dentro di me? Qui possiamo pregare:
« Signore, accresci la mia fede. È poca ed è per questo che sono sempre lo
stesso. Mi rassegno troppo facilmente ad essere ciò che sono mentre Tu mi
chiami ad accettare di essere molto amato da Te, chiamato da Te a qualcosa che
io desidero dal più profondo di me stesso ».
- Ho fiducia che
Dio possa creare cuori nuovi?
Questa domanda
concerne il modo con cui guardo gli altri. Spesso li guardo come incorreggibili
e le loro azioni come ormai inevitabili e non faccio niente per aiutarli perché
non ho fiducia nella forza creativa dello Spirito.
Spesso mi
lamento degli altri, non prego per loro, ritengo di aver subito dei torti e
penso che, mentre io posso convertirmi, per loro non ci può essere il dono
della conversione.
- Do spazio alla
gioia della mia salvezza? Le permetto di esprimersi? In che cosa potrebbe
esprimersi in me?
Forse in un
momento di riflessione silenziosa e quotidiana su una pagina del Vangelo; forse
in un sacrificio affrontato con decisione; forse in una parola di perdono e di
amicizia concessa francamente e senza reticenze.
Preghiamo gli
uni per gli altri perché il nostro cuore si apra alla gioia della salvezza che
viene dal Signore, alla gioia di ciò che Dio opera in noi. Preghiamo perché il
nostro cuore sappia credere alla forza divina di salvezza e possa avere la
pazienza e l'amore di essere, se il Signore lo vuole, strumento di questa forza
di salvezza.
5 La confessione dei peccati
Dal Vangelo
secondo Luca: 18, 9-14
Disse ancora questa parabola per alcuni the
presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al
tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in
piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri
uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno
due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano
invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma
si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua
giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato
e chi si umilia sarà esaltato ».
Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho
fatto.
A questo punto
delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in
che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati.
Il tema è molto
importante per il nostro cammino di riconciliazione. D'altra parte l'accusa dei
peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre
un senso di disagio e pone diverse domande.
Cerchiamo
innanzitutto di specificare il disagio e le domande.
Il disagio per
il contenuto dell'accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non
sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora
al sacerdote dicendo: « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ».
Altre volte, al
contrario, non sappiamo come esprimerci: « Mi aiuti perché non so come dire,
sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».
Il disagio che
nasce dalla forma, dall'atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa
un'autoaccusa: Ho commesso questo, ho fatto quest'altro, sono colpevole della
tal cosa.
In un quadro più
psicologico, l'accusa sfocia in un'autocritica che rischia di scivolare verso
l'autogiustificazione. Mi sono cioè autocriticato così bene da essere riuscito
a chiarirmi a me stesso e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio:
il perdono diventa accessorio, aggiuntivo e di fatto così si rinnega il Vangelo
del perdono.
Oppure si cade
nell'eccesso opposto, nell'autolesionismo: ci si accusa allora senza fine, con
una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non
equilibrato senso della confessione dei peccati.
Nascono quindi
le domande sul valore: che valore ha l'accusa dei peccati? Quale valore
costruttivo della personalità contiene? Perché è necessaria l'accusa?
Non è meglio
lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!?
Oppure non è
meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare
in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati?
Sono dunque
problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell'accusa.
Il contenuto della confessione
Nella nostra
riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già
meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto ».
La prima cosa
che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico.
Qui non c'è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho
sbagliato.
Siamo piuttosto
in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho
fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
L'ambito non è
di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso:
l'ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.
E tuttavia il
dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre
espressioni del Salmo: Riconosco la mia colpa (quale colpa?); il mio peccato mi
sta sempre dinanzi (quale peccato?); contro di te, contro te solo ho peccato.
Il Miserere,
stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi
la domanda: è necessario, è utile andare più in là?
Non potremmo fermarci
a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano
del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?
In realtà, la
Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno
generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di
Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume
sociale del popolo di Israele, segue prima un'accusa: Hanno profanato la stirpe
santa con le popolazioni locali, i magistrati e i capi sono stati i primi a
darsi a questa infedeltà. E poi nasce la preghiera di confessione: «Caddi in
ginocchio, stesi le mani al mio Signore e dissi: Mio Dio, sono confuso, ho
vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio, poiché le nostre colpe si sono
moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) . Vengono quindi espresse
tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione
specifica di quanto è avvenuto: «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi
dato per mezzo dei tuoi servi... il paese di cui andate a prendere possesso è
un paese immondo... noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità, benché
tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ».
È un esempio,
che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione
specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente.
Un'altra celebre
confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del
libro di Neemia:
Tu sei un Dio
pronto a perdonare, pietoso e misericordioso... Anche quando si sono fatti un
vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire
dall'Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non
li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).
Ci sono dunque
nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l'accusa
esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio.
Se noi, dopo
aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel
contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di
fronte ad un'accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo
immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un'unità
liturgica.
I Salmi 49 e 50
(50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti, una liturgia penitenziale
che iniziava con l'accusa circostanziata da parte di Dio e con l'accettazione
di questa accusa da parte dell'uomo. Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel
Salmo 49:
Se vedi un ladro
corri con lui e degli adulteri ti fai compagno. Abbandoni la tua bocca al male
e la tua lingua ordisce inganni, Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti
fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv.
18 ss.).
Il Salmo 50
'emerge chiaramente come risposta: Riconosco la mia colpa... Contro di te,
contro te solo ho peccato... sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.
E poi segue la
preghiera:
Purificami con issopo e sarò mondato...
fammi sentire gioia e letizia.
Da tutte queste
parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che
redarguisce l'uomo e lo interpella sul suo peccato.
L'esame di
coscienza - ora possiamo coglierlo meglio - è il mettersi di fronte alla Parola
di Dio non come quadro etico di riferimento, ma come Parola che interpella, che
rimprovera con quella forza d'amore che le è propria per fare emergere la
scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.
Il contenuto
dell'accusa non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire, non è il
faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro: è un rispondere
all'interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera.
Lasciandoci
interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione
umile, semplice e chiara di confessare: Sì, è vero, questo l'ho fatto, Signore:
hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!
Questo non vuole
evidentemente dire che l'accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente
a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e
con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole
vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura,
del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a
nome di Dio.
Il processo che
cambia l'uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con
atteggiamenti imprendibili: è un metterei nel quadro dell'Alleanza e
riconoscere che l'Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti
in questo dialogo di amore e richiede un dialogo di pentimento e di
riconciliazione.
L'atmosfera della confessione: la « todà »
Se leggiamo
attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica,
notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la
confessione, è una radice che forse qualcuno di noi ricorda.
Chi, infatti, è
stato in Terra Santa, ha certamente sentito spesso la parola todà oppure
todarabbà, che vuol dire: grazie.
Ogni volta che
in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è:
todà, grazie; todarabbà, grazie tante.
Questa è la
parola-chiave dei due Salmi. Significa non solo «grazie» ma pure « lode»,
confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la
medesima.
La riflessione
sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura,
come quelle di Esdrae di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa
scoprire che c'è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:
Mio Dio, sono
confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri
padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli. Ma nella nostra schiavitù Tu
non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci haifatto grazia, hai
liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri. occhi, ci
ha dato un po' di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).
La confessione e
la lode si alternano: l'atmosfera è quella della «confessio laudis» e della
«confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita,
non quella dell'autolesionismo e dell'amarezza.
Del resto, chi
conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande
Santo, battezzato proprio qui, nell'antico battistero del Duomo, ha potuto
congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la
confessione dei propri peccati.
Leggiamo un
esempio ancora dalla preghiera di Neemia:
Alzatevi,
benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso,
che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode... Tu, Tu solo
sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno
indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio
pronto a perdonare, pietoso e misericordioso... hai concesso il tuo spirito buono.
Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro
angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).
Questa lunga
preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e
riconoscimento della colpa in cui l'uomo trova la sua verità, trova l'umiltà e
la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.
Sarebbe anche
bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di
Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:
Benedetto sei
tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto.
Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo
obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e
lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).
La preghiera è
simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di
lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente
abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua
confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come
gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14).
L'errore del
fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis
» con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla
bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano,
con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire:
Tu sei grande, misericordioso, potente e io sono povero. Tu mi salvi e io ti
lodo per la tua grande potenza. Ecco dunque l'atmosfera, il tono, il ritmo che
dovrebbe avere la nostra confessione: l'atmosfera della todà.
Il valore del perdono
Personalmente mi
è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del
perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull'uomo, distinguere, nel
Nuovo Testamento, tre tempi.
Nel linguaggio
neo-testamentario si direbbe: tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza,
diversi l'uno dall'altro, in cui Dio esercita il giudizio sull'uomo peccatore.
a) Un primo
tempo è quello del perdono battesimale.
È il perdono o
condono esercitato sull'uomo che fa il primo passo per entrare nell'Alleanza
chiedendo il Battesimo.
È il primo
grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale». Dio
decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna
condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e
tutti hanno bisogno della misericordia divina.
Chiede soltanto
la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti
battezzare e sarai salvo.
Il peccatore è
perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene
fatto figlio, entra nell'Alleanza. È un giudizio dall'Alto di assoluto condono
rispetto alla condizione umana di peccato.
b) Un secondo
tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel
dialogo.
Una volta che
l'uomo è entrato nell'Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa
mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova
Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è
offerto in un colloquio. Mentre prima del Battesimo non occorre colloquio
salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell'Alleanza il
giudizio salvifico postula il dialogo.
La Parola di Dio
redarguisce l'uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce
peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me,
o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore.
C'è quindi
l'accusa del peccato e l'atto di perdono . in un dialogo tra Dio e l'uomo che
si svolge nell'ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla
rottura dell'Alleanza.
c) Un terzo
momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna
chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.
Alla fine di una
tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il
Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la
sua condotta. Nel giudizio retributivo non c'è più condono né dialogo: c'è il
giudizio secondo verità.
La serietà del
dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta,
tra il condono battesimale globale, in cui l'uomo è salvato con la semplice
adesione di fede a Cristo; e il giudizio finale in cui l'uomo viene
,rigorosamente pesato secondo le sue opere.
Il dialogo, il
perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e
aiuta l'uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi
con fiducia al giudizio di Dio.
C'è quindi una
grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la bontà di
Dio che,. mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l'uomo alla coscienza
della sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di
amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.
Domande per noi
Propongo quattro
domande per la riflessione personale.
- Mi lascio
redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come
istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi
ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?
- Vivo l'accusa
dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell'ambito dell'Alleanza? O la
vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente
un'autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?
- So unire la
«confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla
confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero
ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto
per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di
Lui?
So unire la «
confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio
dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle
preghiere penitenziali dell'Antico Testamento che abbiamo ricordato?
- So
rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come
conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell'ambito familiare,
professionale e civile.
Capisco che la
Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte
e pieno di amore? E non c'è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e
pieno di amore!
Per questo molta
gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti
o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi
coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio,
cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore,
capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie,
che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella
persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare
perché non vogliamo veramente il suo bene.
Nel tempo del
Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica
che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po' dimenticata. « Se il
tuo fratello ha qualcosa contro di te, va' e correggilo da solo a solo e avrai
guadagnato il tuo fratello. »
Quante volte noi
non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore,
per aiutarlo!
Abbiamo paura di
amare così come Dio ci ama.
Preghiamo allora
gli uni per gli altri dicendo:
« Signore,
aprici gli occhi perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole e
possiamo esprimerla come a te piace. Donaci. di ritrovare la gioia della tua
presenza!
Signore, aiutaci
a fare una confessione sacramentale che ci riporti nella verità e ci dia la
forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva! ».
6 La penitenza
Dal Vangelo
secondo Luca: 19, 1-10
Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed
ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere
quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo
di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro,
poiché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo
sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa
tua ». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti
mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ». Ma Zaccheo, alzatosi,
disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se
ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: «
Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo,
il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto
».
Allora
gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto
e l'intera oblazione,
Questa sera
vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali
del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto e l'intera oblazione » (v. 21).
In realtà, gli
esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17,
e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo. Alcuni li ritengono
un'appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge
per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo.
Si paria,
infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà
che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti
precedenti, invece, c'è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino
di riconciliazione.
Risonanze politiche del Salmo
Ci troviamo
dunque di fronte ad una visuale ampia, allargata, nella quale il cammino
individuale va a sfociare nella vita liturgica dell'intera comunità di Israele,
anzi dell'intera città.
Potremmo dire
che siamo chiamati a meditare sulle risonanze sociali e politiche del Salmo
penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Ritornano,
in un certo senso, le parole con cui abbiamo cominciato i nostri incontri.
Allora, riferendomi al Sinodo mondiale dei Vescovi, sottolineavo che uno dei
punti di convergenza dell'assemblea sinodale era stata la convinzione che non
c'è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuore. E
viceversa che non c'è conversione del cuore senza ripercussione sulla
collettività.
È su questo
sfondo che desideriamo approfondire questa sera il momento del Sacramento della
Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si
tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci
chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.
La penitenza
Quando io, come
ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza »,
sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che
maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote.
Egli, infatti,
si domanda:
Quale penitenza
è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti? Come posso,
in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia
frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia? Che cosa le è
veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico?
Ecco che allora
il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una
preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non
sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta
compiendo.
Questo è il
disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando
si vuole uscire dalla routine, dall'abitudine, dalla formalità e adattarsi alla
persona.
D'altra parte
sono convinto - e lo siamo tutti - che quello è uno dei momenti in cui la
Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di
penitenza. È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento: nell'esame di
coscienza aiutando con le domande; nel momento del « dolore» suggerendo le
parole; invitando al proposito con l'esempio dei santi; soprattutto facendosi
trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del
Signore.
Nel momento di
suggerire la « penitenza », però, la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta
particolare, facendosi -vicina al camIl1ino di ciascuna persona nella sua
irripetibile individualità.
Dovrebbe quindi
farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la
parola di Giovanni Battista, «frutti. degni di penitenza », segno di un cuore
che si vuole rinnovare.
Abbiamo così
individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del
Salmo.
L'uomo Zaccheo
Tenendo ora
presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il
Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Le.
19, 1-10).
Possiamo
definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l'uomo e Gesù: è un
racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.
In questo
incontro, l'uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne,
che sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono
di Gesù.
a) L'azione
interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio
forte, intenso, che potremmo quasi chiamare « estatico »,che fà usci're cioè
Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a
farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È
un profondo desiderio che lo muove dal 'di dentro e che è già amore, un amore
incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un'azione esterna.
b) L'azione
esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un
albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato, si metta a correre per la
strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento
ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da
dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua
boria.
Su questo amore
intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi
vengo a casa tua ». È una parola bellissima che a me è stato dato di ripetere e
di esprimere a coloro con i quali ho potuto comunicare durante le trasmissioni
televisive della Quaresima, proprio partendo dall'espressione: Oggi vengo a
casa tua e vorrei che tu mi invitassi a cena.
Questa parola di
familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono
più di premessa ma di conversione.
a) L'azione
esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
b) L'azione
interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di
quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria.
La parola di
Zaccheo: «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno,
restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile,
comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua
riconciliazione.
Gioia e proposta della penitenza
"Tuttavia
ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.
Innanzitutto la
gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente,
quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo. Gli si
potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l'altra metà
non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così
dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall'amicizia e dalla
riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar
risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione.
Il primo frutto
dell'incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca
intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui
non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.
La seconda
sottolinea tura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la
«penitenza» che vuoi fare e Gesù l'approva. Zaccheo propone ciò che è più
adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.
Ha saputo
cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di «
penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti
che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi,
non gesti esteriori che non toccano). È la sua personale, storica, precisa
penitenza.. Gesù l'approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa
casa ».
Possiamo
ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di
chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della
Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza?
La risposta
suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può
aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo
penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza.
Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come
penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo
fratello che è venuto da me: « quale penitenza credi che ti sarebbe utile?
quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo
momento al tuo cammino? ».
Ciascuno,
quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che
sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale.
Anziché
lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, form~le, che è
sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto;
suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della
conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di
purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea
in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo... non privarmi
del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato... ».
Domande per noi
Vorrei allora
proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.
- La gioia di
Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione? E se non lo
accompagna abitualmente, qual è la causa? Parlo evidentemente di una gioia
profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua
risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo
spirito alla generosità.
Se non c'è questa
gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di
vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato nel primo dei
nostri incontri. Un'idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua
iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro
cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una
contemplazione interiore del Padre.
Sono diversi
motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non
accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.
- La seconda
domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire
al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della
mia vita, che cosa direi?
Questa è una
domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze,
i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei
gesti che possono colpire alla radice il male che c'è in me. Gesti di penitenza
quindi che sono un frutto degno della conversione personale.
Se mi accorgo,
ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall'egoismo,
affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa
davvero. Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà
come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla
curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita
pigra,":pesante, neghittosa. Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da
antipatie; dalla non accettazione . di alcune persone, allora emergerà come
penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che
mi coinvolga davvero.
Preghiamo il
Signore dicendo:
« Signore, noi
vogliamo offrir ti frutti degni di penitenza non solo per noi ma per la Chiesa
intera, per tutta l'umanità, per tutta questa città, perché ci sentiamo
corresponsabili del cammino di conversione dell'umanità intera.
Sciogli, o
Signore, i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani perché possiamo
conoscere ciò che veramente è segno di un cammino nuovo, ciò che è un passo
avanti deciso verso di Te! Non permettere che cadiamo nell'abitudine, nella
pigrizia, nella monotonia: rendici santamente inquieti perché mediante un
cammino serio ed autentico verso di Te possiamo ritrovare in noi la sorgente
della gioia. Te lo chiediamo per noi e te lo chiediamo per ciascun uomo e per
ciascuna donna che nella nostra città, nella nostra diocesi, vive ed opera ».
7 Testimoniare la misericordia
Dal Vangelo di
Giovanni: 4, 1-39
Quando il Signore venne a sapere che i
farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni -
sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò
la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la
Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al
terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era il pozzo di
Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso
mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse
Gesù: « Dammi da bere ». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far
provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: « Come mai tu, che sei Giudeo,
chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? ». I Giudei infatti non
mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: « Se tu
conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: . "Dammi da bere!
", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva ».
Gli disse la donna: « Signore, tu non hai un
mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva?
Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e
ne bevve lui con i 'suoi figli e il suo gregge? ». Rispose Gesù: « Chiunque
beve di quest' acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli
darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui
sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna ». « Signore, gli disse la
donna, dammi di quest' acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire
qui ad attingere acqua. » Le disse: « Va' a chiamare tuo marito e poi ritorna
qui ». Rispose la donna: « Non ho marito ». Le disse Gesù: « Hai detto bene
"non ho marito"; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora
non è tuo marito; in questo hai detto il vero ». Gli replicò la donna: «
Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra
questo monte e voi dite, che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare ».
Gesù le dice: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte,
né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi
adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è
giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli
che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ». Gli rispose la donna: «
So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà
ogni cosa ». Le disse Gesù: « Sono io, che ti parlo ».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e
si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli
disse: « Che desideri? », o: « Perché parli con lei? ». La donna intanto lasciò
la brocca, andò in città e disse alla gente: « Venite a vedere un uomo che mi
ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ». Uscirono allora
dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: « Rabbì,
mangia ». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ». E i
discepoli si domandavano l'un l'altro: « Qualcuno forse gli ha portato da
mangiare? ». Gesù disse loro: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha
mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e
poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i
campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie
frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui
infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a
mietere ciò che voi non avete lavorato, altri hanno lavorato e voi siete
subentrati nel loro lavoro ». Molti Samaritani di quella città credettero in
lui per le parole della donna che dichiarava: « Mi ha detto tutto quello che ho
fatto ».
Insegnerò
agli erranti le tue vie
e i
peccatori a te ritorneranno.
...la
mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore,
apri le mie labbra
e la
mia bocca proclami la tua lode.
Siamo giunti
all'ultimo dei nostri incontri e vogliamo riflettere questa sera sulla
necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione
della misericordia.
Ci ispiriamo ad
alcune tra le parole della parte finale del Salmo 50, là dove viene espresso
appunto il proposito di missionarietà: « Insegnerò agli erranti le tue vie..:
la mia lingua esalterà la tua giustizia... apri le mie labbra e la mia bocca
proclami la tua lode». Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente
questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.
L'esperienza del salmista
Notiamo
innanzitutto che il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera
precisa, che corrisponde all'itinerario da lui percorso: farò capire a chi è
senza strada che una strada c'è, anzi che tu, o Signore, gli stai venendo
incontro. Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma
come testimone di ciò che è avvenuto a me.
Ecco allora la
forza di questa testimonianza: chi ha percorso un genuino cammino penitenziale,
può aiutare altri a capire che c'è una via d'uscita: e non semplicemente una
via d'uscita generica o stoica o eroica ma una via d'uscita in cui Dio stesso
viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me.
Più di una volta
si verifica nella vita, infatti, che proprio chi è uscito da qualche tenebroso
tunnel ha una singolare capacità di dire ad altri: coraggio, anche per te c'è
sicuramente una via di uscita!
Questa viene
espressa dal salmista in modo aperto e libero, quasi gli fosse ridata la
parola. Le tre realtà che segnano la parola umana - la lingua, le labbra, la
bocca - vengono qui coinvolte nell'impegno di esprimersi missionariamente.
Lingua, labbra, bocca si aprono non per una imposizione, non perché il
testimone sente un dovere che grava sopra di sé, bensì per una effusione che
gli viene dalla pienezza che ha dentro di sé.
Sappiamo molto
bene che una testimonianza a mezza bocca è poco efficace, talora è quasi una
controtestimonianza. Quella invece che viene dall'esultanza della lingua, dal
bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia, è
veramente degna di essere rispettata e di essere ascoltata.
Possiamo subito
domandarci: com'è la mia testimonianza? È una testimonianza a mèzza bocca, in
cui le labbra si muovono a fatica e annaspo in cerca delle parole? In questo
caso non nasce da una esperienza: nasce piuttosto da qualche cosa che non è
ancora entrato dentro di me.
Oppure, è una
testimonianza spontanea, libera, gioiosa, in cui le parole vengono fuori da
sole? In questo caso sta operando in .me la tua grazia, Signore, è il tuo
Spirito che mi apre la bocca perché io possa cantare le tue lodi con amore,
perché io possa insegnare che c'è una strada a coloro che ritengono non ci sia
più niente da fare. Apri sempre, Signore, la mia bocca soprattutto di fronte
alle situazioni difficili nelle quali mi accade di rimanere muto, di non sapere
cosa dire e addirittura mi sembra che davvero non ci sia speranza!
L'esperienza della Samaritana
Il Vangelo
secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si
apre alla testimonianza convinta e convincente: la donna samaritana.
È un brano che
si potrebbe commentare ripercorrendo, in qualche maniera, le tappe che hanno
segnato i nostri incontri di quest'anno, perché anch'esso indica un cammino
penitenziale, un momento in cui la persona giunge alla verità di se stessa di
fronte a Cristo e alla verità di Cristo come salvatore e come amico.
E alla fine del
cammino, ritroviamo l'apertura del cuore e delle labbra: « La donna intanto
lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che
mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».
Notiamo la
finezza del particolare: « lasciò la brocca ». Questa donna era venuta per
attingere acqua, la brocca era la sua ricchezza, ad essa era legata la sua vita
quotidiana: eppure in questo momento tutto è dimenticato e la brocca slabbrata,
abbandonata sul ciglio del pozzo, è come il segno di una esistenza da cui la
donna è ormai uscita, è il segno di un incubo che ha lasciato dietro di sé. A
somiglianza dei due discepoli di Emmaus, che interrompono la cena a metà, si
alzano e corrono verso Gerusalemme, la Samaritana rifà la strada, corre in
città e va ad annunciare quello che le è accaduto. Lo annuncia con parole
piuttosto maldestre, in verità: «Che sia forse il Messia? ». Di per sé non è un
annuncio molto efficace, almeno da un punto di vista teologico. Eppure queste
parole sono una testimonianza efficacissima perché derivano da una esperienza
vissuta. La gente ha davanti una persona che non parla con parole imparate, che
non ripete una lezione, ma che parla quasi smozzicando le frasi e però con il
cuore e l'affanno di chi ha avuto un'esperienza formidabile, che a fatica si
può comunicare.
Alla Samaritana
si sono aperte le labbra, si è sciolta la lingua e, in una esplosione di gioia,
parla con semplicità e con verità della misericordia di Dio verso di lei.
Proclamare la misericordia
Di fronte
all'esperienza del salmista e della donna samaritana, noi dobbiamo domandarci
quale sia la nostra testimonianza missionaria di misericordia. A noi, infatti,
è chiesto di testimoniare quella grazia che ci ha attratto e d ha accolto nel
cammino penitenziale fatto insieme quest'anno.
Nell'enciclica «
Dives in misericordia », Giovanni Paolo II esprime questo dovere, che ci
compete, in due momenti.
In un primo
momento parla del dovere generale della testimonianza:
Occorre che la
Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della
necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua
missione, sulle orme della tradizione dell'antica e della nuova Alleanza e,
soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi apostoli (Dives in
misericordia, VII).
Testimoniare la
misericordia è dunque un dovere del nostro tempo. Il Papa sembra quasi avere
l'impressione che la Chiesa abbia bisogno di essere esortata, soprattutto oggi,
a prendere coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia
di Dio.
In un secondo
momento indica come si deve dare testimonianza e sottolinea tre modi:
Professandola in
primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita coerente con
la fede; poi cercando di introdurla e di incarnarla nella vita, sia dei suoi
fedeli, sia, per quanto è possibile, in quella di tutti gli uomini di buona
volontà. Infine la Chiesa... ha il diritto e il dovere di richiamarsi alla
misericordia di Dio, implorandola nella preghiera (ibidem).
È facile
comprendere come noi possiamo rendere testimonianza alla misericordia di Dio
professandola.
Ogni volta,
infatti, che ci accostiamo al Sacramento della Riconciliazione, noi facciamo
anche una «confessio fidei », cioè proclamiamo che Dio è Signore della nostra
vita, è più grande del nostro peccato, che la sua misericordia trionfa sulla
fragilità dell'esistenza umana e sul buio dell'uomo: confessiamo quindi e
proclamiamo la misericordia di Dio.
Incarnare la misericordia
Il secondo modo
suggerito dal Papa per testimoniare la misericordia divina è più difficile. Non
è cosa da poco incarnare nella vita la misericordia di Dio. Anzi, è talmente
difficile che talora ci lascia perplessi e sgomenti, ci lascia davvero senza
parole e senza capacità di muoverci in questo cammino di missione e di
testimonianza. D'altra parte, se non riusciamo a dare testimonianza della
misericordia di Dio, ne va della credibilità della Chiesa e della nostra vita
di cristiani.
Vorrei fare
capire questa difficoltà riflettendo su tre situazioni nelle quali possiamo
trovarci.
a) Situazioni o
casi ordinari. Che cosa vuol dire introdurre, incarnare la testimonianza della
misericordia? Concretamente vuol dire mettere in pratica la domanda del « Padre
nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori ». Vuol dire saper perdonare, saper comprendere, saper capire, voler
perdonare settanta volte sette.'
E questo è già
difficile, per tanti motivi che conosciamo bene. È così difficile che spesso
noi lo emarginiamo, questo impegno di perdonare, anche dal nostro orizzonte
morale e rimane quindi come qualcosa di inadempiuto a cui non guardiamo in
faccia. Eppure è testimonianza necessaria, quotidiana, della misericordia
ricevuta da Dio: «Se non perdonerete a chi vi ha fatto del male, neppure il
Padre vostro perdonerà a voi» (cfr. Mt. 6, 15).
b) Situazioni o
casi più complessi. Sono i casi nei quali c'è in gioco la reciprocità. Dove,
cioè, non basta perdonare, quasi fossimo noi soltanto a concedere il favore ad
un altro, ma bisogna farsi perdonare, chiedere perdono, assumere
l'atteggiamento di chi riconosce che se, è stato offeso ne ha però dato-
occasione, che se è stato oggetto di qualche ingiustizia, anche lui però si è
comportato in maniera non pienamente giusta. Tutto questo è molto difficile.
C'è un altro
caso di reciprocità assai difficile nella vita quotidiana ma che è
assolutamente necessario pèrché forma, per così dire, il tessuto della vita. Ne
abbiamo già accennato in un precedente incontro. Non basta cioè perdonare, ma
bisogna saper camminare con un altro, bisogna saper correggere. La correzione
fraterna, così importante per la comunità cristiana, e praticata nella Chiesa
primitiva, richiede molto amore e molta umiltà. Tuttavia spesso noi la
eliminiamo dal nostro orizzonte di agire perché ci appare troppo rischiosa,
impossibile, inefficace e in tal modo non diamo sufficiente testimonianza alla
misericordia di Dio.
Vorrei che
ciascuno, a partire da me, si interrogasse sinceramente: come viviamo queste
occasioni di dare testimonianza, con i fatti, con le opere e non solo con le
parole, alla misericordia di Colui che ci ha amato, che ci riabilita, che ci
accoglie, che ci rifà dall'interno, che ha fiducia in noi?
c) Ci sono,
infine, le situazioni o i casi conflittuali. Intendo per casi conflittuali
quelli in cui ci sembra che la misericordia esiga un certo comportamento mentre
l'ordine e la giustizia ne esigono un altro.
Sono certamente
situazioni estremamente difficili e non sempre riusciamo a trovare la soluzione
soddisfacente: sono situazioni che causano nella Chiesa, nella società, ,nelle
famiglie delle grandi sofferenze. Cercando di vivere la misericordia si arriva
addirittura a temere di, fare torto o danno ad altri o al bene comune: nasce
allora un conflitto tra i valori, almeno apparente, che ci costringe. nella
nostra povertà storica; a non saper scegliere oppure a scegliere qualcosa che
risulta insoddisfacente, in un caso o nell'altro.
Chiunque vive in
mezzo a delle responsabilità si imbatte in molti di questi casi che fanno
soffrire nella misura in cui ci accorgiamo di quanto siamo lontani dall'essere
lungimiranti e veri nella nostra misericordia. Questa sofferenza dobbiamo
offrirla a Dio perché è la sola cosa che possiamo fare.
Ci sono poi dei
casi in cui il compiere un atto di misericordia comporta un uscire da quel
minimo di possesso di noi, che pure è necessario, perdonarci, e allora non lo
compiamo. Quante volte persone generose arrivano ad un limite e riconoscono di
non poter andare oltre, di non potere fare di più! È il limite intrinseco alla
nostra fragilità umana che addolora moltissimo. Andare oltre un certo limite
equivarrebbe a spossessarsi di sé e si cadrebbe nell'opposto di quello che si,
vorrebbe fare. Questa misura di prudenza necessaria ci fa cogliere come sia
difficile dare storicamente una testimonianza pienamente luminosa della
misericordia. Non ci resta allora che soffrire e implorare, per noi e per gli
altri.
Implorare la misericordia
Il Papa,
infatti, nella « Dives in misericordia », dopo aver detto di cercare di
introdurre e di incarnare nella vita la misericordia, aggiunge che bisogna «
implorarla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a
tutte le minacce che gravano sull'intero orizzonte della vita dell'umanità
contemporanea ».
Dobbiamo essere
certi che questa implorazione è resistenza attiva e vera al male e che dispiace
profondamente al nemico di Dio.
Mi ha molto
colpito un brano di Simone Weil, che avevamo ascoltato lo scorso anno, durante
uno dei nostri incontri, là dove scriveva:
Non è così
difficile rinunciare a un piacere, pur inebriante, o sottomettersi a un dolore,
pur violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è
infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere, esporsi a
una semplicissima pena solo per Dio; per il vero Dio, per colui che è nei cieli
e non altrove. Poiché, quando lo si fa, non si va alla sofferenza ma alla
morte. Una morte più radicale della morte carnale e che fa orrore alla natura
stessa.
Invece, è
proprio questo il momento di vincere il male: credere, cioè, al valore di una
implorazione che non ha un'efficacia immediata connessa col suo esercizio.
La nostra
preghiera di implorazione, soprattutto nei casi-limite nei quali ci pare di non
potere fare altro, è un vero modo di resistere al male. Non dobbiamo dunque
avere paura della sterilità e abbandonare la preghiera, come spesso siamo
tentati di fare, perché non ci riesce di scuotere immediatamente il male. È per
questa nostra implorazione sofferta, che talora ci angoscia fino alle lacrime,
che Dio ci darà modo di vedere come usare, anche in quei casi, la misericordia
e l'amore e come aiutare veramente coloro che possiamo assistere con il dono di
noi stessi.
Conclusione
Ecco che cosa
significa e che cosa comporta nella vita essere testimoni della misericordia
divina: « Insegnerò agli erranti le tue vie ». Riconoscendo che siamo tutti
molto lontani da questa testimonianza seria della misericordia, dobbiamo
ritornare alla preghiera creativa del Salmo 50:
« Crea in me, o
Dio, un cuore puro» perché non l'ho e tu devi crearlo in me come cosa nuova;
« Rinnova in me
uno spirito saldo» là dove il mio spirito si adagia nella fatica e nella paura;
« Rendimi la
gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito pronto» a essere testimone
della tua misericordia di fronte a tanti miei fratelli e sorelle che aspettano
questa testimonianza di Te, Padre misericordioso, che mi hai amato e mi hai
chiamato, che mi hai fatto camminare quest'anno insieme a molti altri in un
cammino di conversione e di misericordia.
Vorrei
concludere con le parole di Charles de Foucauld che nel primo incontro abbiamo
ripetuto facendole nostre. Dopo aver indicato il Miserere come preghiera in cui
l'esperienza dell'uomo è spiegata a se stessa, preghiera quotidiana che innalza
l'uomo verso Dio, diceva:
[Questa
preghiera] parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri
peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo
e pregando per la conversione di tutti gli uomini.
È dunque una
preghiera universale da cui nessuno è escluso e da cui la storia umana, nella
sua verità, riceve un coinvolgimento e una presenza degli uni negli altri. In
questa preghiera, cioè, noi ci ricordiamo, ci perdoniamo, ci aiutiamo, ci
sosteniamo nel cammino difficile della conversione evangelica, nella strada
faticosa di chi vuol dare un volto storico credibile a Cristo.
Recitando il
Salmo 50 noi viviamo questa fatica e insieme la gioia immensa dello Spirito che
si riversa nella nostra esistenza e cresciamo verso l'unità misteriosa di Dio,
del Cristo nella storia.
Chiedo
al Signore che attraverso la recita del Salmo 50, attraverso il ricordo di
questo Salmo che ciascuno di noi conserverà nel cuore, noi possiamo conservare
anche la memoria dei momenti meravigliosi che abbiamo vissuto, di questa
fraternità nella fede, di questa umiltà nella richiesta di perdono, della
fiducia che Lui, il Signore, ci fa camminare illuminati dallo splendore del suo
volto e sosten