Per preparare l'incontro del 9 maggio proponiamo questa riflessione del Cardinale Martini.
IL GIUSTO SENSO
DELLA CROCE
La
grazia da chiedere in questa meditazione è indicata dal titolo: il giusto senso
della croce. Titolo che potremmo indicare, più specificatamente così: io,
Pietro e la croce. La croce di Gesù è la sua esperienza del fallimento esterno
della missione e l'opposizione che lo conduce alla morte. Pietro rappresenta il
discepolo eletto, che lo ha seguito nel suo cammino, e ci avviciniamo a lui per
vedere e vivere la croce dal suo punto di vista, per meditare il dramma di
Pietro così da capire anche il nostro.
In
Pietro, infatti, leggiamo la nostra reazione davanti alla croce. Egli non è
solo il discepolo eletto: è l'uomo semplice, sincero, senza seconde intenzioni,
che prende le cose come sono, vi reagisce secondo la propria sensibilità, e di
sorpresa viene portato avanti. Lo seguiremo nel cammino fino al punto
culminante, il suo pianto durante la passione del Signore (Lc 22,62). Momento
culminante, ma non ultimo; il momento finale è nell'annuncio di Le 24,34:
«Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone».
Croce
e conversione
Riflettiamo
su un tema complesso, nel quale si incontrano tante realtà: la croce di Cristo,
la nostra croce, la croce degli altri, la croce del mondo, la consolazione che
possiamo dare. Tutto si complica per le sfumature che questo problema assume
per ciascuno di noi, in virtù della nostra esperienza, del nostro partecipare
alle sofferenze dei fratelli. Siamo davanti un elemento personalissimo: come ci
sono forme senza fine di preghiera (la nostra preghiera è nostra e di nessun
altro), così ci sono forme senza fine di affrontare, sentire, vivere la croce,
e ciascuno ha la sua.
Da
una parte, quindi, ci troviamo disarmati nel parlare, dall'altra avvertiamo
l'urgenza di esortarci a far emergere, ciascuno nel proprio stato di preghiera,
la grazia di affrontare nella verità le proprie e altrui sofferenze. Sarà il frutto della meditazione.
Uno
dei blocchi che impediscono l'emergere della verità di noi stessi,
nell'esperienza della croce propria e altrui è costituito da alcune carenze intellettuali sul tema teologico della redenzione: tema difficile, su cui la
teologia ha elaborato diverse spiegazioni che ci hanno soddisfatto poco e non
ci hanno aiutato, come speravamo, a chiarire il mistero; anzi, forse l'hanno
caricato di pesi e oscurità. È la difficoltà di teologie nate non
dall'esperienza vissuta della conversione e della croce, bensì da
considerazioni astratte. Dovremmo inoltre liberarci, se ce ne fosse bisogno, da
certe ipoteche che le teologie astratte hanno messo in noi a proposito del tema
della croce, del sacrificio, della mortificazione, e riguardo a tutti i temi
connessi, come la vittoria sulla sensualità e lo stesso tema della sessualità.
Ho
riscontrato, per esempio, in un autore americano, la totale incapacità a
comprendere il senso del celibato e, quindi, l'assenza totale del senso della
croce, unita a una permissività strana e sospetta. Una volta scalzati dalla
nostra vita spirituale alcuni elementi fondamentali, non si è più in grado di
prevedere dove si arriverà.
Quando
manca l'ancoraggio profondo alla conversione, al Vangelo vissuto e si esaminano
i problemi in astratto, le conseguenze possono dunque essere deleterie. Per
questo siamo invitati anzitutto a sviluppare in noi il senso profondo, vero e
vissuto della conversione evangelica e a metterci di fronte alla realtà della
vita cristiana come la viviamo, per poi chiedere alla teologia di illuminare
tale realtà, e non viceversa.
La
realtà della vita evangelica, che leggiamo nella Scrittura e nella vita dei
santi, non può essere condizionata da teorie costruite e da modi di pensare che
non partano da una fede autenticamente adulta. Ci accorgiamo allora come sia
delicato il tema che stiamo trattando e quante risonanze abbia nel nostro modo
di concepire la vita, l'apostolato, l'ascetica, la mortificazione.
lo,
Pietro e la croce
Di
per sé il Vangelo di Luca non è il manuale migliore per meditare sul cammino di
Pietro, dal momento che risparmia molto l'apostolo (è Marco che presenta bene
il dramma e racconta i rimproveri di Gesù in modo più forte): non troviamo, ad
esempio, in Luca il rimprovero di Pietro a Gesù dopo la prima predizione della
passione e la parola «Satana» rivoltagli dal Signore.
Ancora,
Luca non parla di Pietro come colui che dorme nel Getsèmani e al quale Gesù si
rivolge con rammarico. Anche la parola «Rimetti la tua spada nel fodero», che
Giovanni riferisce come detta a Pietro, non è riportata. In più, per mettere in
buona luce l'apostolo suo amico, soltanto Luca riferisce la frase: «Io ho
pregato per te, che non venga meno la tua fede» (22,32), mentre la stessa
millanteria di Pietro nell'ultima cena («Anche se tutti dovessero lasciarti, io
non ti lascerò») è omessa.
Dunque,
risparmia Pietro, lo lascia nell'ombra e noi mediteremo sulla base di Luca,
tenendo tuttavia presenti Marco e Giovanni.
Cominceremo
col riflettere su Luca 9,20, per vedere anzitutto l'inizio del cammino di
Pietro a proposito della via della croce. Poi passeremo a considerare Pietro
nell'ultima cena, Pietro nell’orto del Getsèmani, Pietro in tribunale durante la passione di Gesù.
Provvedere
al Regno
In
Luca 9,20 cogliamo Pietro in un momento culminante della sua carriera, quando
si sente soddisfatto perché ha detto ciò che gli altri non sono stati capaci di
dire: Tu sei «il Cristo di Dio». La fiducia mostratagli dal Maestro, fin dalla
prima chiamata, gli faceva sentire e intuire che avrebbe avuto una missione
importante; ora è al colmo della gioia credendo che la missione gli sia stata
conferita: egli infatti ha proclamato «il Cristo di Dio», ha dato voce a quello
che era timido e implicito negli altri, ha avuto coraggio e ha messo Gesù in
buona luce. Immaginiamo la sofferenza e l'umiliazione allorché, subito dopo,
Gesù attenua l'entusiasmo e proibisce di parlarne, mentre incomincia a parlare
della croce.
In
Marco 8,32 Pietro è sconcertato dall’annuncio della passione, sente il dovere
di rimproverare Gesù e di dirgli: no, questo non è per te; ma ottiene solo il
risultato di irritare fortemente il Maestro.
Proviamo
a immaginare che sia Pietro a raccontare e chiediamogli cosa gli è successo in
quel momento. Ci direbbe probabilmente di non aver capito più niente: io, che
avevo esaltato il Signore, non potevo assolutamente permettere che andasse in
croce, volevo evitargli la croce, perché lo stimavo e provavo per lui grande
affetto, volevo fargli capire che noi, peccatori, avremmo dovuto essere votati
alla sofferenza, non lui; allora il Signore si è messo a gridare, a inveire
contro di me, e non ho capito più niente. Così mi sono chiuso e mi sono
interrogato: chi sarà dunque questo Gesù?
In
realtà Pietro, nell'episodio immediatamente seguente la Trasfigurazione, non ha
affatto capito la lezione; di nuovo vuole provvedere al Maestro ed esclama:
«Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per
Mosè e una per Elia». Luca aggiunge: «Egli non sapeva quel che diceva» (9,33).
Proviamo
a metterci noi nella sua situazione: convinto di dover provvedere a Gesù e agli
ospiti, sembra quasi dire: ci penso io; adesso stiamo
qui. Notate la sua generosità: le tende sono solo per Gesù, Mosè ed Elia,
mentre gli apostoli staranno all'aperto. Pietro però si sente al centro della
situazione, e forse, ancora con questa fiducia in se stesso, scende dalla montagna.
Più avanti, l'evangelista racconta
che gli apostoli rimasti in pianura non avevano potuto cacciare il demonio da
un ragazzo (cfr. Lc 9,27 -40); forse Pietro li avrà guardati con una certa
sufficienza, per il fallimento dell'esorcismo, dicendo tra sé, con le parole di
Gesù: «Generazione incredula!».
La psicologia di Pietro è in fondo la
nostra. Si sentiva investito del Regno, capace veramente di opere grandi, di
provvedere come Gesù e magari un pochino più di lui. Questo atteggiamento ci
penetra rispetto alle nostre opere, rispetto alla Chiesa, quando ci
identifichiamo col nostro lavoro, col nostro apostolato e lo consideriamo
appunto "nostro" più che del Signore.
Autosufficienza
Passiamo, senza che ci sia stato
molto progresso (perché Luca sottolinea come gli apostoli, quindi anche Pietro,
non avevano capito niente delle predizioni della passione), all’episodio
dell'ultima cena, in particolare a Luca 22,31-34.
Notiamo anzitutto la doppia
ripetizione del nome - presente anche nel richiamo a Marta (Lc 10,41) -, che
indica la serietà della situazione e insieme il molto affetto di Gesù: «"Simone,
Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato
per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i
tuoi fratelli"». «E Pietro gli disse: "Signore, con te sono pronto ad
andare in prigione e alla morte". Gli rispose: "Pietro, io ti dico:
oggi non canterà il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di
conoscermi"».
Cerchiamo
di metterei nei panni di Pietro, interpellato così accoratamente e amorevolmente:
«Simone, Simone».
Egli
è oggetto dell'amoroso rimprovero di Gesù: Pietro, non stai comprendendo la
situazione reale, non sei nel giusto, non capisci che cosa sta accadendo
intorno. Sei così pieno di te, della tua capacità di fare qualcosa per me, che
quasi ti consideri tu il mio benefattore, il mio salvatore. Io ho pregato per
te, perché sei tu ad aver bisogno della mia preghiera, la tua fede è in
pericolo. Ho pregato per te perché tu possa poi aiutare gli altri, ma solo
quando sarai tornato indietro. E qui c'è un accenno delicatissimo: guarda, sei
al baratro, sei al limite. Mentre credi di aiutarmi a portare la croce, stai
per esserne schiacciato tu.
Pietro
risponde con parole bellissime: «Signore, con te sono pronto». Che cosa
potrebbe dire di più? Viene in mente l'espressione di sant'Ignazio negli
Esercizi spirituali:
«Chi
vuole venire con me, deve lavorare con me, perché, seguendo mi nella
sofferenza, mi segua anche nella gioia».
Ma
queste parole, pur bellissime, non contano. Come mai Pietro ha sbagliato?
Probabilmente perché sta addirittura abusando delle parole del Signore. Gli è
stato appena detto: «ho pregato per te», e Pietro, invece di ricavare consapevolezza
della sua povertà e della sua fragilità, ne trae motivo di autosufficienza e
presunzione. Non ha colto l'accenno al ritorno, al pericolo per la sua fede;
solo l'accenno a se stesso di cui il Regno di Dio ha necessità
(«conferma i tuoi fratelli»). Non ha neppure bisogno della preghiera del
Signore, perché è sicuro che da solo ce la farà. Gesù risponde: Guarda, Pietro,
che la catastrofe è imminente; e lui continua a non voler capire, e gli altri
apostoli con lui, tanto è vero che, subito dopo l'affermazione: «Sono pronto
con te ad andare in prigione e alla morte», nel v. 38, appena luccicano le
spade, queste parole acquistano un altro senso. Lo leggiamo tra le righe, anche
se materialmente non è scritto nel testo: ecco qui due spade, siamo pronti a
morire, ma per difenderti, Signore. Vogliamo difendere te, vogliamo farti
vedere di che cosa siamo capaci per te.
È lo
stravolgimento completo del Vangelo, per cui non è Gesù a salvarci, bensì siamo
noi che salviamo lui e la sua Chiesa; non è più il Vangelo dell'iniziativa
divina, è il Vangelo della nostra bravura nell'operare a favore di Dio.
Al
luccicare delle due spade, Pietro ha sentito rinascere in sé l'uomo-uomo,
l'uomo che vuoI fare qualcosa per il Signore, perché non è mai riuscito ad
accettare che Gesù sia più generoso di lui, che sia al suo servizio e che egli debba
lasciarsi condurre. Pietro ha sempre tradotto tutto in chiave di
autosufficienza e quindi non ha compreso l’insegnamento di Gesù sul fariseo e
il pubblicano, il messaggio di salvezza per i poveri, la necessità della
conversione del peccatore. Persino quando ha dichiarato: «Sono un uomo
peccatore» (Lc 5,8), l'ha detto per riprendersi nuovamente la propria potenza,
per illudersi sulle sue possibilità.
Passione
Arriviamo
così al giardino degli ulivi (Lc 22,39-46).
Abbiamo
già sottolineato come Pietro venga risparmiato da Luca e perciò ci lasciamo
aiutare da Marco. Comunque, anche leggendo Luca, contempliamo Gesù che prega,
agonizza e suda sangue; ci chiediamo allora: Dov'è Pietro, perché non è qui? E
lo domandiamo pure a noi, che certamente ci saremmo comportati come lui.
Personalmente confesso che mi sarei spaventato dell'angoscia di Gesù, non avrei
voluto vederlo piangere, e mi sarei messo da parte. Per un senso di protezione e
di affetto, non avrei potuto sopportare di guardarlo in quello stato di
abbattimento.
Così
Pietro ha paura dell'angoscia di Gesù e non sa trovare le parole giuste:
preferisce restare lontano, cancellare la scena che si rifiuta di assorbire e
lasciarsi andare al sonno della tristezza, di cui parla Luca (22,45).
Tutti
sappiamo per esperienza che è difficile sopportare il dolore di una persona
cara quando siamo impotenti ad aiutarla; forse lo sopportiamo finché ci
sentiamo utili e importanti, ma allorché la sofferenza ci rivela la nostra incapacità
e inadeguatezza, preferiamo ritirarci, temiamo di essere travolti da sentimenti
ed emozioni che non riusciamo a dominare. Pietro avverte di non poter dominare
l'angoscia di Gesù, appunto perché il suo modo di capire il Vangelo glielo
impedisce; in questo momento si rivela l'errata concezione della salvezza.
che Pietro non ha ancora dissipato del tutto. Si sente perduto di fronte al
dolore del Maestro, e la sua li sicurezza comincia a crollare.
Avrebbe
desiderato essere con Gesù fino in prigione, alla croce, però in una condizione
affrontata virilmente, coraggiosamente, con la spada in mano. Adesso che invece
è di fronte alla tentazione di Gesù, alla sua umiliazione, è di nuovo
sconvolto. Lo schiaffo ultimo alla sua sicurezza lo leggiamo al v. 46. Gesù
dice loro - a Pietro, secondo Marco, a tutti in Luca -: «Perché dormite?
Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».
Gesù
vede chiaramente che questi uomini hanno una fede debole, oscura, confusa, e
stanno per essere travolti. E li esorta: «Pregate», cioè mettetevi nella vera
situazione di mendicanti di Dio; non fermatevi a pensare che non sapete in
quale modo esercitare la vostra capacità di reagire, ma confessate la verità
del momento, quella che Gesù sta confessando con le parole: Padre, io non ce la
faccio se tu non mi dai la forza, vorrei non bere questo calice. Gesù stesso
sta pregando e gridando con umiltà la verità della debolezza umana; tuttavia, i
discepoli non accettano tale debolezza.
Si
mettono a dormire sapendo che la preghiera li porterebbe a scoprire la loro
miseria, a riconoscerla, a riconoscere il bisogno di essere salvati loro più di
Gesù. Per questo entrano in tentazione; la falsità nella quale si sono lasciati
avvolgere li travolge. Tutto questo emerge nella scena della cattura (Lc 22,47ss).
La situazione cambia rapidamente: entra la folla, entra Giuda, l'emozione
giunge al colmo.
Cosa
fa Pietro? Vuole salvare Gesù, ricorre alla spada, e il culmine della sua
realtà di uomo ora salta fuori: il Maestro non deve morire e noi dobbiamo
difenderlo da prodi!
Chiediamo
a Pietro: cosa intendevi fare con quel gesto? E lui risponde: avrei voluto impedire
a Gesù di morire, a costo della mia vita; non potevo accettare che fosse
catturato, mentre avrei accettato che catturassero me; ho perso la testa e mi
sono scagliato per spaccare la testa a uno, e meno male che il colpo è andato
di fianco perché ho evitato così guai peggiori.
Gesù
si oppone, e a questo punto Pietro perde tutto il coraggio e si domanda: che ci
sto a fare allora? Cosa vuole da me il Maestro? Mi sono compromesso fino all'ultimo
e ora mi ordina di tomare indietro, anzi sana l'uomo ferito all'orecchio con
misericordia. Non capisco più niente; evidentemente sono diventato inutile.
Sconfessato
da Gesù, umi1iato e confuso, Pietro è al culmine della tentazione. C'è ancora
un'ultima parola di Gesù che spazza via ogni sicurezza: «Questa è la vostra
ora, è l'impero delle tenebre» (Le 22,53).
Immagino
che Pietro avrà pensato: ma se lui non resiste neppure alla potenza delle
tenebre, dove siamo andati a finire?
Se
accetta su di sé la potenza delle tenebre, si può sapere cosa è venuto a fare?
Quale è mai il regno di cui parlava tanto?
Per
Pietro la delusione è enorme, completa: non solo mi viene impedito di aiutarlo,
ma addirittura non so più quale sia la mia parte! L'apostolo ha perso la sua
identità.
Lasciarsi
amare
Tuttavia,
siccome è buono e sincero, e Gesù ha pregato per lui, Pietro non vuole
abbandonare del tutto il Maestro, e lo segue con amore, anche se molto
avvilito. Continua a pensare cosa accadrà e, in fondo in fondo, spera ancora di
aiutarlo , di essergli utile. In questo stato d'animo, con sentimenti d'affetto
più che con convinzione, va dietro a Gesù. Finalmente assistiamo ali 'esplodere
della verità di Pietro, che si era già manifestata nella sua povertà al
Getsèmani; qui cala a picco, è costretto a riconoscere pubblicamente la sua
situazione di smarrimento totale. Nel Getsèmani poteva ancora cavarsela con una
certa gloria, ma ora sente con le sue stesse orecchie a che punto è arrivato.
Consideriamo
le domande che gli vengono poste. Una serva lo vede seduto al fuoco, lo guarda
e dice: «Anche questi era con lui» (Lc 22,50). Come sono belle le parole: «Con
lui»!
Sono
le stesse usate da Pietro: «Con te». Ma egli nega affermando: «Non lo
conosco!».
Come
è vera questa espressione, che sottolinea l'amarezza di Pietro, non però ciò
che pensava: quell'uomo mi ha deluso, non riesco a capirlo, non lo conosco più.
Esse esprimono la paura e insieme la delusione, lo smarrimento: non so più cosa
dire di lui.
Al
v. 58 la seconda pubblica umiliazione di Pietro. Un altro lo accusa: «Anche tu
sei di loro!».
Nel
primo intervento è messo in questione il suo rapporto con Gesù; nel secondo il
suo rapporto con i discepoli. Risponde, pensando che gli altri siano fuggiti:
«No, non lo sono!».
È
persino incapace di riferirsi ai suoi amici, che forse stima diversi da sé in
questo momento, perché non sono presenti. Ha perso il senso del rapporto con il
Signore e con la comunità dei fratelli: nega l'uno, nega gli altri.
Luca
continua: «Passata circa un'ora»: che terribile ora!
Pietro,
cosa ti è successo in quel tempo? È stata l'ora più spaventosa della mia vita:
smarrito, mangiato dai rimorsi, dalla paura, dall' incapacità di riprendermi,
dal non sapere cosa dovevo fare e chi ero.
Per
lui devono essere risuonate, come martellate nel cuore, le parole che aveva
precedentemente ascoltato: «Vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini,
anche il Figlio dell'uomo lp riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi
rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc
12,8-9).
Pietro
è sconvolto da queste parole che vanno e vengono, turbinando in lui. E risente
un altro insegnamento del Maestro: «Quando vi condurranno davanti alle
sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o
che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che
bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Con
quale vergogna, invece, Pietro si accorge di essere entrato proprio in quella
tentazione, preoccupato e confuso!
Preoccupato
di sé, del proprio ruolo, di come doveva regolarsi nella vicenda, poiché
toccava a lui salvare Gesù: Gesù che invece non aveva voluto lasciarsi salvare.
In
tale confusione e umiliazione, leggiamo l'ultima domanda, la più insistente:
«"In verità", dice uno che lo osserva dal fondo "anche questo
era con lui; è anche lui un galileo". Ma Pietro disse: "O uomo, non
so quello che dici"» (Lc 22,59-60).
Pietro
si rivela al massimo. Luca usa la stessa espressione impiegata nel racconto
della Trasfigurazione, a proposito delle tre tende: «Egli non sapeva quel che
diceva» (Lc 9,33).
Pietro
ha lasciato emergere la sua verità, ha lasciato venir fuori la sua povertà ed è
arrivato al punto di non capirsi più; gli è sfuggita completamente di mano la
situazione, è smarrito, non sa cosa deve fare, cosa ci si aspetta da lui.
L'unico sentimento che avverte è l'istinto di salvare la pelle, di non
compromettersi, e basta, dal momento che non c'è più niente che valga la pena
di fare. Così neppure il canto del gallo (Lc 22,60) lo scuote. È la denuncia
del peccato, però la denuncia fredda, tagliente, accusatrice, e l'apostolo non
ne capisce il senso. E «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro e Pietro si
ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo
canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito, pianse amaramente» (Lc
22,61).
Domandiamo
a Pietro cosa ha capito in quel momento e perché lo sguardo di Gesù gli ha
aperto gli occhi, rivelandogli la verità di tutta la situazione. Più o meno
avrà pensato: Lui muore per me, che sono un verme e un vile (ecco la verità!); io
volevo essere chissà chi e adesso lui sta morendo per me, pover'uomo e ridotto
a non sapere chi sono. Mi hai vinto, Signore, tu sei più buono di me; credevo
di farcela, di fare qualcosa per te, ma tu mi hai sopraffatto con la tua bontà.
Vai a morire per me, di cui io stesso mi vergogno!
La
prima espressione della conversazione di Pietro era stata: «Sta' lontano da me,
perché sono un uomo peccatore» (Le 5,8).
Ora
si confronta con la carità del Signore e finalmente capisce che lui lo ama e
gli chiede di lasciarsi amare.
A
Pietro sono cadute le squame dagli occhi; si accorge che aveva sempre rifiutato
di lasciarsi amare, aveva sempre rifiutato di lasciarsi salvare pienamente da
Gesù, e quindi non voleva che il Signore lo amasse del tutto. Ma la
straordinaria grandezza di Gesù consiste proprio nel morire per lui e lui deve
accettare questo amore, anche se incredibile!
Com'è
difficile lasciarsi amare davvero! Vorremmo sempre che qualcosa di noi non
fosse legato a riconoscenza, mentre in realtà siamo debitori di tutto perché
Dio è il primo e ci salva totalmente, con amore.
La
conclusione del cammino di Pietro è in Luca 24,34: «Davvero il Signore è
risorto ed è apparso a Simone».
Cerchiamo,
nella meditazione personale, di chiedere a Pietro quale differenza c'è stata tra
lo sguardo di Gesù e l'apparizione del Risorto. In fondo, già in quello sguardo
aveva capito di essere amato infinitamente, e tutto il resto gli si era
chiarito: Gesù è amore, vita, Dio; la sua morte è morte per amore e non può non
essere per la vita. Perciò la risurrezione era già compresa in quello sguardo
accettato.
Cosa
sente allora Pietro, quando il Risorto gli si fa presente? Penso che provi un'immensa
gioia per Gesù. Ormai per Pietro è solo il Signore che conta, quindi la sua
consolazione è la consolazione stessa di Gesù: consolazione che gli viene come
rovesciata addosso, da cui è travolto, nella quale resta immerso. L'apertura a
lasciarsi amare è accettazione senza limiti della consolazione del Signore
nella risurrezione; non quella consolazione preoccupata e affaticata che a
volte ci sforziamo di raggiungere, bensì la consolazione di chi si è lasciato
travolgere dal piano di Dio, che lo ha fatto proprio, per il quale la gloria di
Cristo è la propria gloria. Chiediamo a Pietro di renderci partecipi della sua
esperienza e del vero senso della croce.
Gesù,
tu hai permesso che Pietro passasse per tante paure, così che risplendesse in
lui la verità del Vangelo che doveva manifestare agli altri. Fa' che anche noi
ci lasciamo amare da te in tutte le nostre prove. Donaci di riconoscere la tua
bontà, di lasciarci conquistare dalla tua croce per conoscerti come tu sei, cioè
il Dio che ci ama, per poter con gioia partecipare alla tua gloria e proclamarla
agli altri. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.