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domenica 4 maggio 2014

IL GIUSTO SENSO DELLA CROCE: IO, PIETRO E LA CROCE

Per preparare l'incontro del 9 maggio proponiamo questa riflessione del Cardinale Martini.


IL GIUSTO SENSO DELLA CROCE
La grazia da chiedere in questa meditazione è indicata dal titolo: il giusto senso della croce. Titolo che potremmo indicare, più specificatamente così: io, Pietro e la croce. La croce di Gesù è la sua esperienza del fallimento esterno della missione e l'opposizione che lo conduce alla morte. Pietro rappresenta il discepolo eletto, che lo ha seguito nel suo cammino, e ci avviciniamo a lui per vedere e vivere la croce dal suo punto di vista, per meditare il dramma di Pietro così da capire anche il nostro.
In Pietro, infatti, leggiamo la nostra reazione davanti alla croce. Egli non è solo il discepolo eletto: è l'uomo semplice, sincero, senza seconde intenzioni, che prende le cose come sono, vi reagisce secondo la propria sensibilità, e di sorpresa viene portato avanti. Lo seguiremo nel cammino fino al punto culminante, il suo pianto durante la passione del Signore (Lc 22,62). Momento culminante, ma non ultimo; il momento finale è nell'annuncio di Le 24,34: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone».
Croce e conversione
Riflettiamo su un tema complesso, nel quale si incontrano tante realtà: la croce di Cristo, la nostra croce, la croce degli altri, la croce del mondo, la consolazione che possiamo dare. Tutto si complica per le sfumature che questo problema assume per ciascuno di noi, in virtù della nostra esperienza, del nostro partecipare alle sofferenze dei fratelli. Siamo davanti un elemento personalissimo: come ci sono forme senza fine di preghiera (la nostra preghiera è nostra e di nessun altro), così ci sono forme senza fine di affrontare, sentire, vivere la croce, e ciascuno ha la sua.
Da una parte, quindi, ci troviamo disarmati nel parlare, dall'altra avvertiamo l'urgenza di esortarci a far emergere, ciascuno nel proprio stato di preghiera, la grazia di affrontare nella verità le proprie e altrui sofferenze.  Sarà il frutto della meditazione.
Uno dei blocchi che impediscono l'emergere della verità di noi stessi, nell'esperienza della croce propria e altrui è costituito da alcune carenze intellettuali sul tema teologico della redenzione: tema difficile, su cui la teologia ha elaborato diverse spiegazioni che ci hanno soddisfatto poco e non ci hanno aiutato, come speravamo, a chiarire il mistero; anzi, forse l'hanno caricato di pesi e oscurità. È la difficoltà di teologie nate non dall'esperienza vissuta della conversione e della croce, bensì da considerazioni astratte. Dovremmo inoltre liberarci, se ce ne fosse bisogno, da certe ipoteche che le teologie astratte hanno messo in noi a proposito del tema della croce, del sacrificio, della mortificazione, e riguardo a tutti i temi connessi, come la vittoria sulla sensualità e lo stesso tema della sessualità.
Ho riscontrato, per esempio, in un autore americano, la totale incapacità a comprendere il senso del celibato e, quindi, l'assenza totale del senso della croce, unita a una permissività strana e sospetta. Una volta scalzati dalla nostra vita spirituale alcuni elementi fondamentali, non si è più in grado di prevedere dove si arriverà.
Quando manca l'ancoraggio profondo alla conversione, al Vangelo vissuto e si esaminano i problemi in astratto, le conseguenze possono dunque essere deleterie. Per questo siamo invitati anzitutto a sviluppare in noi il senso profondo, vero e vissuto della conversione evangelica e a metterci di fronte alla realtà della vita cristiana come la viviamo, per poi chiedere alla teologia di illuminare tale realtà, e non viceversa.
La realtà della vita evangelica, che leggiamo nella Scrittura e nella vita dei santi, non può essere condizionata da teorie costruite e da modi di pensare che non partano da una fede autenticamente adulta. Ci accorgiamo allora come sia delicato il tema che stiamo trattando e quante risonanze abbia nel nostro modo di concepire la vita, l'apostolato, l'ascetica, la mortificazione.
lo, Pietro e la croce
Di per sé il Vangelo di Luca non è il manuale migliore per meditare sul cammino di Pietro, dal momento che risparmia molto l'apostolo (è Marco che presenta bene il dramma e racconta i rimproveri di Gesù in modo più forte): non troviamo, ad esempio, in Luca il rimprovero di Pietro a Gesù dopo la prima predizione della passione e la parola «Satana» rivoltagli dal Signore.
Ancora, Luca non parla di Pietro come colui che dorme nel Getsèmani e al quale Gesù si rivolge con rammarico. Anche la parola «Rimetti la tua spada nel fodero», che Giovanni riferisce come detta a Pietro, non è riportata. In più, per mettere in buona luce l'apostolo suo amico, soltanto Luca riferisce la frase: «Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (22,32), mentre la stessa millanteria di Pietro nell'ultima cena («Anche se tutti dovessero lasciarti, io non ti lascerò») è omessa.
Dunque, risparmia Pietro, lo lascia nell'ombra e noi mediteremo sulla base di Luca, tenendo tuttavia presenti Marco e Giovanni.
Cominceremo col riflettere su Luca 9,20, per vedere anzitutto l'inizio del cammino di Pietro a proposito della via della croce. Poi passeremo a considerare Pietro nell'ultima cena, Pietro nell’orto del Getsèmani, Pietro in tribunale durante la passione di Gesù.
Provvedere al Regno
In Luca 9,20 cogliamo Pietro in un momento culminante della sua carriera, quando si sente soddisfatto perché ha detto ciò che gli altri non sono stati capaci di dire: Tu sei «il Cristo di Dio». La fiducia mostratagli dal Maestro, fin dalla prima chiamata, gli faceva sentire e intuire che avrebbe avuto una missione importante; ora è al colmo della gioia credendo che la missione gli sia stata conferita: egli infatti ha proclamato «il Cristo di Dio», ha dato voce a quello che era timido e implicito negli altri, ha avuto coraggio e ha messo Gesù in buona luce. Immaginiamo la sofferenza e l'umiliazione allorché, subito dopo, Gesù attenua l'entusiasmo e proibisce di parlarne, mentre incomincia a parlare della croce.
In Marco 8,32 Pietro è sconcertato dall’annuncio della passione, sente il dovere di rimproverare Gesù e di dirgli: no, questo non è per te; ma ottiene solo il risultato di irritare fortemente il Maestro.
Proviamo a immaginare che sia Pietro a raccontare e chiediamogli cosa gli è successo in quel momento. Ci direbbe probabilmente di non aver capito più niente: io, che avevo esaltato il Signore, non potevo assolutamente permettere che andasse in croce, volevo evitargli la croce, perché lo stimavo e provavo per lui grande affetto, volevo fargli capire che noi, peccatori, avremmo dovuto essere votati alla sofferenza, non lui; allora il Signore si è messo a gridare, a inveire contro di me, e non ho capito più niente. Così mi sono chiuso e mi sono interrogato: chi sarà dunque questo Gesù?
In realtà Pietro, nell'episodio immediatamente seguente la Trasfigurazione, non ha affatto capito la lezione; di nuovo vuole provvedere al Maestro ed esclama: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Luca aggiunge: «Egli non sapeva quel che diceva» (9,33).
Proviamo a metterci noi nella sua situazione: convinto di dover provvedere a Gesù e agli ospiti, sembra quasi dire: ci penso io; adesso stiamo qui. Notate la sua generosità: le tende sono solo per Gesù, Mosè ed Elia, mentre gli apostoli staranno all'aperto. Pietro però si sente al centro della situazione, e forse, ancora con questa fiducia in se stesso, scende dalla montagna.
Più avanti, l'evangelista racconta che gli apostoli rimasti in pianura non avevano potuto cacciare il demonio da un ragazzo (cfr. Lc 9,27 -40); forse Pietro li avrà guardati con una certa sufficienza, per il fallimento dell'esorcismo, dicendo tra sé, con le parole di Gesù: «Generazione incredula!».
La psicologia di Pietro è in fondo la nostra. Si sentiva investito del Regno, capace veramente di opere grandi, di provvedere come Gesù e magari un pochino più di lui. Questo atteggiamento ci penetra rispetto alle nostre opere, rispetto alla Chiesa, quando ci identifichiamo col nostro lavoro, col nostro apostolato e lo consideriamo appunto "nostro" più che del Signore.
Autosufficienza
Passiamo, senza che ci sia stato molto progresso (perché Luca sottolinea come gli apostoli, quindi anche Pietro, non avevano capito niente delle predizioni della passione), all’episodio dell'ultima cena, in particolare a Luca 22,31-34.
Notiamo anzitutto la doppia ripetizione del nome - presente anche nel richiamo a Marta (Lc 10,41) -, che indica la serietà della situazione e insieme il molto affetto di Gesù: «"Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli"». «E Pietro gli disse: "Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte". Gli rispose: "Pietro, io ti dico: oggi non canterà il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi"».
Cerchiamo di metterei nei panni di Pietro, interpellato così accoratamente e amorevolmente: «Simone, Simone».
Egli è oggetto dell'amoroso rimprovero di Gesù: Pietro, non stai comprendendo la situazione reale, non sei nel giusto, non capisci che cosa sta accadendo intorno. Sei così pieno di te, della tua capacità di fare qualcosa per me, che quasi ti consideri tu il mio benefattore, il mio salvatore. Io ho pregato per te, perché sei tu ad aver bisogno della mia preghiera, la tua fede è in pericolo. Ho pregato per te perché tu possa poi aiutare gli altri, ma solo quando sarai tornato indietro. E qui c'è un accenno delicatissimo: guarda, sei al baratro, sei al limite. Mentre credi di aiutarmi a portare la croce, stai per esserne schiacciato tu.
Pietro risponde con parole bellissime: «Signore, con te sono pronto». Che cosa potrebbe dire di più? Viene in mente l'espressione di sant'Ignazio negli Esercizi spirituali:
«Chi vuole venire con me, deve lavorare con me, perché, seguendo mi nella sofferenza, mi segua anche nella gioia».
Ma queste parole, pur bellissime, non contano. Come mai Pietro ha sbagliato? Probabilmente perché sta addirittura abusando delle parole del Signore. Gli è stato appena detto: «ho pregato per te», e Pietro, invece di ricavare consapevolezza della sua povertà e della sua fragilità, ne trae motivo di autosufficienza e presunzione. Non ha colto l'accenno al ritorno, al pericolo per la sua fede; solo l'accenno a se stesso di cui il Regno di Dio ha necessità («conferma i tuoi fratelli»). Non ha neppure bisogno della preghiera del Signore, perché è sicuro che da solo ce la farà. Gesù risponde: Guarda, Pietro, che la catastrofe è imminente; e lui continua a non voler capire, e gli altri apostoli con lui, tanto è vero che, subito dopo l'affermazione: «Sono pronto con te ad andare in prigione e alla morte», nel v. 38, appena luccicano le spade, queste parole acquistano un altro senso. Lo leggiamo tra le righe, anche se materialmente non è scritto nel testo: ecco qui due spade, siamo pronti a morire, ma per difenderti, Signore. Vogliamo difendere te, vogliamo farti vedere di che cosa siamo capaci per te.
È lo stravolgimento completo del Vangelo, per cui non è Gesù a salvarci, bensì siamo noi che salviamo lui e la sua Chiesa; non è più il Vangelo dell'iniziativa divina, è il Vangelo della nostra bravura nell'operare a favore di Dio.
Al luccicare delle due spade, Pietro ha sentito rinascere in sé l'uomo-uomo, l'uomo che vuoI fare qualcosa per il Signore, perché non è mai riuscito ad accettare che Gesù sia più generoso di lui, che sia al suo servizio e che egli debba lasciarsi condurre. Pietro ha sempre tradotto tutto in chiave di autosufficienza e quindi non ha compreso l’insegnamento di Gesù sul fariseo e il pubblicano, il messaggio di salvezza per i poveri, la necessità della conversione del peccatore. Persino quando ha dichiarato: «Sono un uomo peccatore» (Lc 5,8), l'ha detto per riprendersi nuovamente la propria potenza, per illudersi sulle sue possibilità.
Passione
Arriviamo così al giardino degli ulivi (Lc 22,39-46).
Abbiamo già sottolineato come Pietro venga risparmiato da Luca e perciò ci lasciamo aiutare da Marco. Comunque, anche leggendo Luca, contempliamo Gesù che prega, agonizza e suda sangue; ci chiediamo allora: Dov'è Pietro, perché non è qui? E lo domandiamo pure a noi, che certamente ci saremmo comportati come lui. Personalmente confesso che mi sarei spaventato dell'angoscia di Gesù, non avrei voluto vederlo piangere, e mi sarei messo da parte. Per un senso di protezione e di affetto, non avrei potuto sopportare di guardarlo in quello stato di abbattimento.
Così Pietro ha paura dell'angoscia di Gesù e non sa trovare le parole giuste: preferisce restare lontano, cancellare la scena che si rifiuta di assorbire e lasciarsi andare al sonno della tristezza, di cui parla Luca (22,45).
Tutti sappiamo per esperienza che è difficile sopportare il dolore di una persona cara quando siamo impotenti ad aiutarla; forse lo sopportiamo finché ci sentiamo utili e importanti, ma allorché la sofferenza ci rivela la nostra incapacità e inadeguatezza, preferiamo ritirarci, temiamo di essere travolti da sentimenti ed emozioni che non riusciamo a dominare. Pietro avverte di non poter dominare l'angoscia di Gesù, appunto perché il suo modo di capire il Vangelo glielo impedisce; in questo momento si rivela l'errata concezione della salvezza. che Pietro non ha ancora dissipato del tutto. Si sente perduto di fronte al dolore del Maestro, e la sua li sicurezza comincia a crollare.
Avrebbe desiderato essere con Gesù fino in prigione, alla croce, però in una condizione affrontata virilmente, coraggiosamente, con la spada in mano. Adesso che invece è di fronte alla tentazione di Gesù, alla sua umiliazione, è di nuovo sconvolto. Lo schiaffo ultimo alla sua sicurezza lo leggiamo al v. 46. Gesù dice loro - a Pietro, secondo Marco, a tutti in Luca -: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».
Gesù vede chiaramente che questi uomini hanno una fede debole, oscura, confusa, e stanno per essere travolti. E li esorta: «Pregate», cioè mettetevi nella vera situazione di mendicanti di Dio; non fermatevi a pensare che non sapete in quale modo esercitare la vostra capacità di reagire, ma confessate la verità del momento, quella che Gesù sta confessando con le parole: Padre, io non ce la faccio se tu non mi dai la forza, vorrei non bere questo calice. Gesù stesso sta pregando e gridando con umiltà la verità della debolezza umana; tuttavia, i discepoli non accettano tale debolezza.
Si mettono a dormire sapendo che la preghiera li porterebbe a scoprire la loro miseria, a riconoscerla, a riconoscere il bisogno di essere salvati loro più di Gesù. Per questo entrano in tentazione; la falsità nella quale si sono lasciati avvolgere li travolge. Tutto questo emerge nella scena della cattura (Lc 22,47ss). La situazione cambia rapidamente: entra la folla, entra Giuda, l'emozione giunge al colmo.
Cosa fa Pietro? Vuole salvare Gesù, ricorre alla spada, e il culmine della sua realtà di uomo ora salta fuori: il Maestro non deve morire e noi dobbiamo difenderlo da prodi!
Chiediamo a Pietro: cosa intendevi fare con quel gesto? E lui risponde: avrei voluto impedire a Gesù di morire, a costo della mia vita; non potevo accettare che fosse catturato, mentre avrei accettato che catturassero me; ho perso la testa e mi sono scagliato per spaccare la testa a uno, e meno male che il colpo è andato di fianco perché ho evitato così guai peggiori.
Gesù si oppone, e a questo punto Pietro perde tutto il coraggio e si domanda: che ci sto a fare allora? Cosa vuole da me il Maestro? Mi sono compromesso fino all'ultimo e ora mi ordina di tomare indietro, anzi sana l'uomo ferito all'orecchio con misericordia. Non capisco più niente; evidentemente sono diventato inutile.
Sconfessato da Gesù, umi1iato e confuso, Pietro è al culmine della tentazione. C'è ancora un'ultima parola di Gesù che spazza via ogni sicurezza: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Le 22,53).
Immagino che Pietro avrà pensato: ma se lui non resiste neppure alla potenza delle tenebre, dove siamo andati a finire?
Se accetta su di sé la potenza delle tenebre, si può sapere cosa è venuto a fare? Quale è mai il regno di cui parlava tanto?
Per Pietro la delusione è enorme, completa: non solo mi viene impedito di aiutarlo, ma addirittura non so più quale sia la mia parte! L'apostolo ha perso la sua identità.
Lasciarsi amare
Tuttavia, siccome è buono e sincero, e Gesù ha pregato per lui, Pietro non vuole abbandonare del tutto il Maestro, e lo segue con amore, anche se molto avvilito. Continua a pensare cosa accadrà e, in fondo in fondo, spera ancora di aiutarlo , di essergli utile. In questo stato d'animo, con sentimenti d'affetto più che con convinzione, va dietro a Gesù. Finalmente assistiamo ali 'esplodere della verità di Pietro, che si era già manifestata nella sua povertà al Getsèmani; qui cala a picco, è costretto a riconoscere pubblicamente la sua situazione di smarrimento totale. Nel Getsèmani poteva ancora cavarsela con una certa gloria, ma ora sente con le sue stesse orecchie a che punto è arrivato.
Consideriamo le domande che gli vengono poste. Una serva lo vede seduto al fuoco, lo guarda e dice: «Anche questi era con lui» (Lc 22,50). Come sono belle le parole: «Con lui»!
Sono le stesse usate da Pietro: «Con te». Ma egli nega affermando: «Non lo conosco!».
Come è vera questa espressione, che sottolinea l'amarezza di Pietro, non però ciò che pensava: quell'uomo mi ha deluso, non riesco a capirlo, non lo conosco più. Esse esprimono la paura e insieme la delusione, lo smarrimento: non so più cosa dire di lui.
Al v. 58 la seconda pubblica umiliazione di Pietro. Un altro lo accusa: «Anche tu sei di loro!».
Nel primo intervento è messo in questione il suo rapporto con Gesù; nel secondo il suo rapporto con i discepoli. Risponde, pensando che gli altri siano fuggiti: «No, non lo sono!».
È persino incapace di riferirsi ai suoi amici, che forse stima diversi da sé in questo momento, perché non sono presenti. Ha perso il senso del rapporto con il Signore e con la comunità dei fratelli: nega l'uno, nega gli altri.
Luca continua: «Passata circa un'ora»: che terribile ora!
Pietro, cosa ti è successo in quel tempo? È stata l'ora più spaventosa della mia vita: smarrito, mangiato dai rimorsi, dalla paura, dall' incapacità di riprendermi, dal non sapere cosa dovevo fare e chi ero.
Per lui devono essere risuonate, come martellate nel cuore, le parole che aveva precedentemente ascoltato: «Vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lp riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9).
Pietro è sconvolto da queste parole che vanno e vengono, turbinando in lui. E risente un altro insegnamento del Maestro: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Con quale vergogna, invece, Pietro si accorge di essere entrato proprio in quella tentazione, preoccupato e confuso!
Preoccupato di sé, del proprio ruolo, di come doveva regolarsi nella vicenda, poiché toccava a lui salvare Gesù: Gesù che invece non aveva voluto lasciarsi salvare.
In tale confusione e umiliazione, leggiamo l'ultima domanda, la più insistente: «"In verità", dice uno che lo osserva dal fondo "anche questo era con lui; è anche lui un galileo". Ma Pietro disse: "O uomo, non so quello che dici"» (Lc 22,59-60).
Pietro si rivela al massimo. Luca usa la stessa espressione impiegata nel racconto della Trasfigurazione, a proposito delle tre tende: «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33).
Pietro ha lasciato emergere la sua verità, ha lasciato venir fuori la sua povertà ed è arrivato al punto di non capirsi più; gli è sfuggita completamente di mano la situazione, è smarrito, non sa cosa deve fare, cosa ci si aspetta da lui. L'unico sentimento che avverte è l'istinto di salvare la pelle, di non compromettersi, e basta, dal momento che non c'è più niente che valga la pena di fare. Così neppure il canto del gallo (Lc 22,60) lo scuote. È la denuncia del peccato, però la denuncia fredda, tagliente, accusatrice, e l'apostolo non ne capisce il senso. E «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito, pianse amaramente» (Lc 22,61).
Domandiamo a Pietro cosa ha capito in quel momento e perché lo sguardo di Gesù gli ha aperto gli occhi, rivelandogli la verità di tutta la situazione. Più o meno avrà pensato: Lui muore per me, che sono un verme e un vile (ecco la verità!); io volevo essere chissà chi e adesso lui sta morendo per me, pover'uomo e ridotto a non sapere chi sono. Mi hai vinto, Signore, tu sei più buono di me; credevo di farcela, di fare qualcosa per te, ma tu mi hai sopraffatto con la tua bontà. Vai a morire per me, di cui io stesso mi vergogno!
La prima espressione della conversazione di Pietro era stata: «Sta' lontano da me, perché sono un uomo peccatore» (Le 5,8).
Ora si confronta con la carità del Signore e finalmente capisce che lui lo ama e gli chiede di lasciarsi amare.
A Pietro sono cadute le squame dagli occhi; si accorge che aveva sempre rifiutato di lasciarsi amare, aveva sempre rifiutato di lasciarsi salvare pienamente da Gesù, e quindi non voleva che il Signore lo amasse del tutto. Ma la straordinaria grandezza di Gesù consiste proprio nel morire per lui e lui deve accettare questo amore, anche se incredibile!
Com'è difficile lasciarsi amare davvero! Vorremmo sempre che qualcosa di noi non fosse legato a riconoscenza, mentre in realtà siamo debitori di tutto perché Dio è il primo e ci salva totalmente, con amore.
La conclusione del cammino di Pietro è in Luca 24,34: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone».
Cerchiamo, nella meditazione personale, di chiedere a Pietro quale differenza c'è stata tra lo sguardo di Gesù e l'apparizione del Risorto. In fondo, già in quello sguardo aveva capito di essere amato infinitamente, e tutto il resto gli si era chiarito: Gesù è amore, vita, Dio; la sua morte è morte per amore e non può non essere per la vita. Perciò la risurrezione era già compresa in quello sguardo accettato.
Cosa sente allora Pietro, quando il Risorto gli si fa presente? Penso che provi un'immensa gioia per Gesù. Ormai per Pietro è solo il Signore che conta, quindi la sua consolazione è la consolazione stessa di Gesù: consolazione che gli viene come rovesciata addosso, da cui è travolto, nella quale resta immerso. L'apertura a lasciarsi amare è accettazione senza limiti della consolazione del Signore nella risurrezione; non quella consolazione preoccupata e affaticata che a volte ci sforziamo di raggiungere, bensì la consolazione di chi si è lasciato travolgere dal piano di Dio, che lo ha fatto proprio, per il quale la gloria di Cristo è la propria gloria. Chiediamo a Pietro di renderci partecipi della sua esperienza e del vero senso della croce.

Gesù, tu hai permesso che Pietro passasse per tante paure, così che risplendesse in lui la verità del Vangelo che doveva manifestare agli altri. Fa' che anche noi ci lasciamo amare da te in tutte le nostre prove. Donaci di riconoscere la tua bontà, di lasciarci conquistare dalla tua croce per conoscerti come tu sei, cioè il Dio che ci ama, per poter con gioia partecipare alla tua gloria e proclamarla agli altri. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.
9 maggio 2014
 
incontro di condivisione sulla Parola di Dio

Tema: La fede di Pietro

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